Il Nagorno Karabakh in fiamme. Il sangue dopo la tregua

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epa08700462 (FILE) - Armenian artillery position of the self-defense army of Nagorno-Karabakh in Martakert, Nagorno-Karabakh Republic, 03 April 2016 (reissued 27 September 2020). According to media reports, clashes have erupted in the territorial conflict between Armenia and Azerbaijan in Nagorno-Karabakh Republic, with both sides reporting civilian deaths after shelling, artillery and air attacks along the front. EPA/VAHRAM BAGHDASARYAN / PHOTOLURE (MaxPPP TagID: epalivefive043933.jpg) [Photo via MaxPPP]

(Roma 16 Ottobre 2020). Il cessate il fuoco per scopi umanitari, proclamato il 10 ottobre tra Armenia e Azerbaijan, non ha retto nemmeno 24 ore. Dopo poco infatti i bombardamenti hanno ripreso a colpire le città sia del Nagorno Karabakh sia dell’Azerbaijan e il conflitto ha riportato in scena il suo drammatico copione: sirene ed esplosioni, feriti e morti.

Ora però la guerra nel Caucaso Meridionale è entrata in una nuova fase, non si combatte più solo utilizzando l’aviazione, i droni e l’artiglieria. Gli scontri si sono fatti in queste ore sempre più intensi e i combattimenti adesso vedono impegnati anche la fanteria e le truppe speciali di entrambi gli eserciti che da giorni hanno intrapreso un’aspra lotta nella città di Hadrut: un punto strategicamente cruciale per l’esito del conflitto.

Hadrut, piccola cittadina di soli 4mila abitanti, si trova nella parte sudorientale del Nagorno Karabakh, e chi la controlla, sfruttando le numerose colline che la circondano, ha in pugno anche numerosi villaggi e posizioni strategiche dell’Artsakh, compresa la strada che mette in comunicazione il sud della regione con la capitale Stepanakert.

Venerdì sera una notizia incomincia a circolare per la capitale del Nagorno Karabakh infettando di isteria e psicosi tutta la città: il presidente Aliev ha annunciato la presa del centro abitato di confine, parlando di ”vittoria storica”. Artak Beglaryan, mediatore e osservatore dei diritti umani per il governo del Karabakh, su Twitter ha denunciato il fatto che sono stati uccisi una madre con il figlio disabile durante gli scontri. Conferme e smentite si susseguono e, sui social network, le due parti in causa offrono versioni differenti attribuendosi reciprocamente la vittoria. Le notizie si fanno confuse e solo all’indomani si riesce a comprendere la portata di quanto sta avvenendo: ad Hadrut sono in corso feroci combattimenti perché i soldati azeri sono penetrati nel territorio dell’Artsakh.

Convogli di soldati armeni attraversano Stepanakert e si dirigono verso la città contesa: blindati e camion che trasportano pezzi di artiglieria si arrampicano sulle colline che dal capoluogo costeggiano Shushi e poi da lì conducono sino ad Hadrut: il punto chiave dello scontro. Perdere o vincere ad Hadrut significa perdere o vincere la guerra. E la mobilitazione di soldati e volontari diretti verso il fronte lo dimostra.

Lungo tutta la strada che conduce sino alla prima linea si incontrano militari, giovani e non solo, condannati a quello che da lì a breve avrebbero appreso essere un incubo nel cuore del Caucaso. Alcuni di loro viaggiano con le proprie Lada Niva verso la battaglia e già dalle retrovie si sentono i colpi di artiglieria che echeggiano tra le montagne e indicano la prossimità degli scontri. Su tutti i tornanti i soldati del Karabakh hanno installato postazioni dell’artiglieria e più ci si avvicina al fronte più la tensione diviene palpabile. Checkpoint e controllo dei documenti, divieto categorico di registrare video e fare foto di truppe e armamenti e ad ogni domanda su come sia la situazione nessuno vuole dare delle risposte.

Il perché nessuno voglia parlare lo si comprende quando mancano solo dieci chilometri alla città contesa: un’intera colonna di camion militari dell’esercito di Stepanakert è in fiamme, le carcasse carbonizzate dei tir bruciano a bordo strada e il fumo si leva dai resti dei veicoli bombardati dai droni dell’esercito di Baku. Qui la violenza ha raggiunto il suo parossismo e con essa anche la paura che alberga nei volti dei ragazzi nascosti nelle trincee scavate sui pendii della collina che sovrasta Hadrut.

Il sibilo di un razzo terrorizza tutti i soldati che sono sul fronte. I militari incominciano a correre e ad appiattirsi contro le rocce, l’esplosione arriva pochi secondi dopo. Alcuni soldati urlano, altri invece affidano il proprio terrore al silenzio e si fanno sempre più piccoli, cercando rifugio sotto le giberne e l’elmetto e provando così a scomparire per pochi istanti da un conflitto che sta condannato alla follia, all’infermità e alla morte centinaia di giovani.

I colpi dell’artiglieria azera sono incessanti e si abbattono sulle le colline e sulla la strada che mette in comunicazione Stepanaker con Hadrout, l’obiettivo dell’esercito azero è lapalissiano: distruggere le vie di comunicazioni e le infrastrutture per impedire alle truppe armene di ricevere rinforzi e rifornimenti.

Mentre sulle montagne i cannoneggiamenti non danno tregua in città invece si combatte casa per casa. I cecchini sono appostati nelle abitazioni del piccolo centro abitato divenuto una città fantasma, e il bilancio delle vittime è inclemente. Gli scontri stanno proseguendo in queste ore e entrare in città è impossibile. Le uniche notizie che si raccolgono su quanto sta accadendo ad Hadrut son quelle che fanno circolare i due governi: il Ministro della difesa azero ha diffuso un video che mostra la presa di Hadrut da parte delle forze di Baku, i media armeni hanno smentito il tutto dichiarando che la città è sotto il loro controllo.

E mentre i proclami belligeranti e pugnaci si affastellano, intanto i ragazzi dell’esercito armeno e azero trascorrono giorni e notti interi sotto il tiro dei bombardamenti, al riparo in precarie trincee, con la sola compagnia dei propri fantasmi e di un orrore che, come un male antropomorfo, qui, nel Caucaso meridionale, ha instaurato il proprio fortilizio terreno.

Daniele Bellocchio. (Inside Over)