(Roma, 24 novembre 2025). Cappellino e mimetica, barba bianca, più o meno curata. Così appare, nelle poche foto disponibili che lo ritraggono, Haytham Ali Tabatabai, architetto militare e comandante di Hezbollah ucciso nel bombardamento di domenica 23 novembre da parte di Israele a Beirut.
L’esercito israeliano ha comunicato che Tabatabai era tra i cinque rimasti uccisi nel bombardamento del quartiere di Haret Hreik, alla periferia meridionale di Beirut, poco dopo è arrivata la conferma di Hezbollah. Il gruppo ha dichiarato che il comandante sarebbe “asceso come martire in sacrificio per il Libano e il suo popolo”, confermando di fatto la sua morte.
L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha motivato la decisione di attaccare sottolineando l’importanza del ruolo di Tabatabai nella ricostruzione e nell’armamento della milizia sciita, mentre il presidente libanese Joseph Aoun si è appellato alla comunità internazionale chiedendo fermezza nell’intervenire a difesa dell’integrità del Libano di fronte agli attacchi israeliani.
La carriera: le unità d’élite e l’ascesa al potere
Non c’era solo Israele, tra coloro che avevano puntato Tabatabai. Gli americani lo avevano inserito in una lista di ricercati per terrorismo già nel 2016, quando la sua rilevanza politica e militare- l’asse della resistenza allora era molto distante da quello che ne rimane oggi, e lo stesso discorso vale per Hezbollah- era decisamente più ridotta. Eppure, per avere informazioni sul suo conto, gli Stati Uniti offrivano 5 milioni di dollari. Quell’annuncio in queste ore si trova ancora online, battuto sul tempo da Israele.
Tabatabai, nato nel 1968 da madre libanese e padre iraniano, era entrato tra le fila del movimento molto giovane, negli anni Ottanta, scalandone nel tempo l’intera gerarchia: le forze di difesa israeliane (IDF) lo descrivono come uno degli uomini più potenti di Hezbollah, nonché figura emblematica nel rafforzamento dell’unità d’élite Radwan, responsabile della pianificazione di attacchi transfrontalieri contro Israele. Sarebbe merito anche di una certa discrezione, che gli avrebbe permesso di farsi strada all’interno della struttura di potere della milizia sciita conquistandosi dapprima il titolo di capo di stato maggiore, poi di conseguenza la leadership nelle operazioni più sensibili.
Il potere, nel suo caso, era arrivato tardi, grazie anche alla contingente uccisione da parte delle Idf di molti degli uomini ai vertici del gruppo, tra cui Fouad Shokor, Ibrahim Akil e Ali Karaki. Fino al 2024 infatti la sua principale occupazione era stata una lunga sequela di operazioni nel contesto regionale, dalla collaborazione con gruppi filoiraniani nello Yemen al coordinamento di attività durante la guerra civile in Siria. Proprio in Siria, nel 2015, era scampato a un precedente tentativo israeliano di ucciderlo.
Le conseguenze incerte dell’uccisione
Ancora non è chiaro che conseguenze la sua morte possa avere, quello che è certo è che la sua figura era centrale per Hezbollah, in una fase in cui il movimento aveva un disperato bisogno di ricostruire la propria leadership e capacità militare. Questa morte per la milizia libanese potrebbe segnare una contrazione pericolosa, in termini di difficolta logistiche nel rimettersi in sesto mantenendo la necessaria coesione interna. Ma ciò che di più importante emerge dall’uccisione di Tabatabai è altro: Israele non ha alcuna intenzione di fare passi indietro, e le dichiarazioni per cui non permetterà la ricostruzione di Hezbollah vanno ben oltre la forza retorica.
Di Gaia Zanaboni. (Inside Over)