(Roma, 27 ottobre 2025). Quando il potere si ritira, qualcun altro si affaccia alla porta. È una regola costante nella geopolitica e in Siria si sta ripetendo con inquietante precisione. La riduzione della presenza militare americana e la caduta del governo di Bashar al-Assad, avvenuta a dicembre 2024, hanno creato un vuoto di potere che lo Stato Islamico si sta affrettando a colmare. Quello che era stato presentato come un colosso in frantumi dopo la sconfitta a Raqqa nel 2017, oggi torna a mostrare i muscoli: non con la grandeur del passato, ma con la pericolosa astuzia di chi ha imparato a sopravvivere nella clandestinità.
L’ombra lunga del ritiro americano
Dal ritiro di circa 500 soldati statunitensi, iniziato nell’aprile 2025, la situazione è precipitata rapidamente. Washington aveva ancora 2.000 uomini sul terreno, un dispositivo che garantiva la sorveglianza dei corridoi strategici nella Siria nordorientale. Cedendo basi e responsabilità alle Syrian Democratic Forces (SDF), si è aperto uno spazio operativo che i militanti jihadisti hanno immediatamente sfruttato. In assenza di un deterrente credibile, cellule armate leggere, mobili e decentralizzate hanno ripreso a colpire pattuglie e convogli, scegliendo bersagli facili e sfruttando l’effetto sorpresa.
Il ritorno dell’ISIS non è avvenuto attraverso battaglie campali, ma con imboscate e attacchi mirati. La tattica è semplice e letale: piccoli gruppi su motociclette, abiti civili, fuoco improvviso. A ottobre 2025 sono stati 117 gli attacchi solo nel nord-est siriano, più dell’intero 2024. È la dimostrazione che un movimento anche numericamente limitato, ma radicato nel territorio e privo di vincoli logistici pesanti, può destabilizzare vaste aree con costi minimi.
Deir ez-Zor, il cuore di una nuova insorgenza
L’epicentro di questa rinascita è ancora una volta la provincia di Deir ez-Zor. Già roccaforte jihadista negli anni post-Raqqa, oggi ospita circa 3.000 combattenti, secondo stime diffuse da al-Naba, la pubblicazione settimanale dell’organizzazione. Gli attacchi si concentrano lungo le vie di comunicazione e contro le strutture delle SDF: 29 operazioni in due mesi soltanto nella provincia, 5 a Raqqa e 4 ad al-Hasakah. Una geografia precisa che riflette il disegno strategico del gruppo: minare la capacità delle forze curde di controllare il territorio e, contemporaneamente, seminare terrore tra la popolazione civile.
L’arresto, il 23 ottobre, di Ahmed Khalaf al-Hussein, dirigente specializzato nella costruzione di autobombe, segnala due aspetti: da un lato l’efficacia dei raid mirati della coalizione internazionale, dall’altro la capacità dell’ISIS di mantenere una struttura logistica autonoma, con filiere per reperire materiali e assemblare ordigni. È il segno che l’organizzazione non è un’ombra dispersa, ma una rete flessibile e resiliente.
Il collasso di Damasco e il fattore curdo
La caduta del regime di Assad ha accelerato un processo già in corso: il disfacimento dell’autorità centrale. Senza un potere statale che controlli i confini e le infrastrutture strategiche, la Siria si è trasformata in un mosaico di zone grigie, controllate da milizie, forze curde e gruppi armati. Le SDF, benché sostenute dalla United States Central Command, non hanno la massa critica né la legittimità politica per governare stabilmente ampie aree arabe. Questo crea una frattura tra potere di fatto e consenso reale: un terreno ideale per la penetrazione jihadista.
Sul piano strategico, Washington ha voluto ridurre i costi militari e politici di un impegno diretto in Siria, ma così facendo ha consegnato ai jihadisti un margine di manovra che in passato era stato faticosamente eroso. Per molti attori regionali — in primis la Türkiye e l’Islamic Revolutionary Guard Corps iraniano — il vuoto aperto dal crollo di Damasco e dalla ritirata americana rappresenta un’occasione per rafforzare la propria influenza. La Siria rischia di diventare nuovamente un campo di battaglia tra potenze regionali e gruppi armati transnazionali.
Geoeconomia di un conflitto senza fine
La rinascita dell’ISIS ha anche un riflesso economico. Le aree oggi più colpite corrispondono a regioni chiave per le infrastrutture energetiche siriane — in particolare pozzi di gas e petrolio di Deir ez-Zor — che diventano strumenti di finanziamento per gruppi armati attraverso contrabbando e tassazione illegale. La frammentazione territoriale aumenta i costi di sicurezza per qualunque attore economico voglia operare nell’area e scoraggia ogni ricostruzione. Inoltre, la riemersione jihadista alimenta indirettamente i flussi di profughi e migranti, con ripercussioni sui Paesi confinanti e sull’Europa.
La stabilità della Siria non è più solo una questione militare: è diventata un nodo strategico delle catene energetiche e logistiche regionali. In assenza di un attore forte che controlli il territorio, l’ISIS può garantirsi flussi di denaro attraverso estorsioni, sequestri, tassazioni parallele e traffici clandestini.
Uno scenario di instabilità prolungata
Non è la prima volta che l’ISIS risorge dalle proprie macerie. La sua forza non risiede nella capacità di conquistare territori, ma nella sua natura reticolare, capace di mutare forma e di adattarsi ai contesti di fragilità politica. L’attuale rinascita jihadista non significa la ricostituzione del califfato territoriale del 2014, ma la creazione di una “zona di instabilità persistente”, difficile da estirpare e facile da sfruttare.
Gli Stati Uniti, oggi meno presenti, e gli attori locali come le SDF si trovano a fronteggiare un nemico che non si mostra ma colpisce, non dichiara ma mina le fondamenta di qualunque autorità. La caduta di Assad ha aperto una stagione incerta, in cui la Siria potrebbe diventare ancora una volta un laboratorio di guerre per procura.
Di Giuseppe Gagliano. (Inside Over)