(Roma, 20 ottobre 2025). Tanti analisti in buona fede hanno criticato aspramente il cosiddetto piano di pace di Trump, spiegando, in estrema sintesi, che per i palestinesi resta un futuro di soggezione, con Israele che continuerà a imperversare contro gli obiettivi che riterrà di dover colpire nella Striscia e con la Cisgiordania sempre in balia dell’espansionismo dei coloni e lo Stato palestinese fuori dall’orizzonte degli eventi.
Critiche condivisibili, ma che mancano di realismo. Infatti, quel che a oggi è drammaticamente a tema, non è il futuro prossimo venturo dei palestinesi, ma il presente, perché è possibile che il futuro ancora più prossimo non veda più palestinesi in Medio oriente, uccisi o sfollati dalla loro terra.
Ciò che è drammaticamente a tema, infatti, è che ricominci, domani o dopo, e vada a compimento la soluzione finale dei palestinesi che il cessate il fuoco ha provvisoriamente, e in via più che precaria, interrotto. Con tutti i suoi tragici difetti, evidenti e innegabili, la tregua ha posto un argine alla soluzione finale, ma tale argine può rompersi da un momento all’altro, sommergendo di nuovi orrori Gaza e la Cisgiordania.
Adesso urge, cioè, stabilizzare la tregua prima che crolli. Perché il governo israeliano e i suoi tanti complici e conniventi internazionali stanno facendo di tutto per sabotarla per l’ennesima volta, mentre va dato atto a Trump che, per ora e in via del tutto provvisoria, sta cercando di portarla avanti, nonostante le sue dichiarazioni su quanto avviene a Gaza siano, al solito, ambigue e spesso riprorevoli.
Ci hanno provato con la restituzione dei corpi degli ostaggi defunti, accusando Hamas di violare i patti perché non procedeva, nonostante siano ovvie le difficoltà confermate dalla Croce rossa.
Difficoltà che erano state registrate anche da Trump, il quale aveva affermato: “Gli ostaggi vivi sono tornati tutti. Ora stanno scavando e stanno trovando molti corpi, devono rimuovere macerie. Alcuni sono morti nei tunnel” etc.
Dichiarazione accompagnata dall’annuncio dell’arrivo di un team internazionale per aiutare Hamas a individuare i corpi e a estrarli da sotto le macerie, operazione che deve avvalersi di mezzi pesanti che Hamas non ha.
L’arrivo di tale team, benché attenui la pressione per usare la mancata restituzione dei corpi per far saltare la tregua, non la ferma. Infatti, continuano le pressioni sul punto, che servono a mettere in dubbio la determinazione di Hamas a osservare la tregua, ed è di oggi la denuncia che il team turco sarebbe composto da un’organizzazione che Israele classifica come terrorista (possibile preludio a una richiesta di un disimpegno della stessa dalla ricerca dei corpi).
Altra criticità posta alla tregua le immagini dei miliziani di Hamas che giustiziano collaborazionisti e membri delle bande armate sostenute da Israele, che hanno imperversato nella Striscia collaborando al genocidio e rubando gli aiuti che arrivavano in loco.
Dopo le proteste israeliane, e non solo, Trump aveva gettato acqua sul fuoco affermando che Hamas “ha eliminato un paio di bande che erano molto pericolose… ne hanno ucciso diversi membri. La cosa, a dire il vero, non mi ha dato molto fastidio. Va bene così”. Poi, evidentemente pressato da Tel Aviv, ha cambiato idea condannando le esecuzioni (sul punto, rimandiamo a una nota pregressa).
Una dinamica che fa capire come il governo israeliano sia determinato a riprendere il massacro; e già ieri sembrava avere trovato una via.
Tutto era pronto, con il Dipartimento di Stato Usa (che Trump controlla fino a un certo punto) che aveva preventivamente emesso un comunicato atto alla bisogna, che avvertiva di “un’imminente violazione del cessate il fuoco da parte di Hamas”.
Si avvertiva cioè di “un attacco pianificato contro i civili palestinesi” da parte della milizia islamica, che in realtà non ha mai attaccato i civili (le rese dei conti sono altro). Un attacco che, aggiungeva il comunicato, “costituirebbe una violazione diretta e grave dell’accordo di cessate il fuoco”.
E l’attacco pianificato si è consumato, ma non contro i civili – nessuno avrebbe creduto a una responsabilità di Hamas – ma contro i soldati israeliani, due dei quali sono stati uccisi e tre feriti. Attacco che ha scatenato la reazione di Tel Aviv, le cui bombe hanno ucciso 21 civili, facendo salire il numero degli uccisi dopo la tregua a 97 (a proposito di violazioni degli accordi).
Anche stavolta a frenare è stato Trump, che ha dichiarato di ritenere che i capi di Hamas non erano coinvolti e che probabilmente era stato opera di gruppi “ribelli” all’interno della milizia, aggiungendo che “la situazione verrà gestita correttamente, duramente, ma correttemente”, cioè la tregua resta in vigore. Per ora.
E, per tentare di tenere a freno Netanyahu, ha spedito Witkoff e Kushner in Israele, dove incontreranno le famiglie degli ostaggi, probabilmente per spiegare loro le difficoltà sul ritrovamento dei corpi dei loro cari, come riferisce Haaretz, e per incontrare il premier israeliano, col quale dovranno confrontarsi sull’inizio della seconda fase dei negoziati, direttas ad affrontare il tema del dispiegamento di una forza internazionale di stabilizzazione, il ritiro delle IDF e il disarmo di Hamas.
Fase che finora Netanyahu ha eluso, in parallelo alle restrizioni imposte all’arrivo degli aiuti (altra violazione degli accordi), e sulla quale evidetemente Trump vuole forzare, inviando, oltre ai due, il suo vice J. D. Vance, che sbarcherà domani a Tel Aviv.
Non si tratta di affermare che Trump è buono, morale o altro di simile o se il suo piano sia un’opportunità per cui i palestinesi possano vivere con libertà e dignità sulla loro terra. Sarà anche un malfattore e il cosiddetto piano di pace ha certo tutte le pecche di questo mondo, ma in questo momento egli (e/o il suo ego) e quel maledetto piano sono l’unica cosa che separa i palestinesi dall’abisso di una ripresa in grande stile del genocidio. Almeno finché Trump riuscirà a tenere il punto.
Di Davide Malacaria – Piccolenote.it (Inside Over)