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Trump e Putin a Budapest : la rivincita di Orban. Così l’Europa finisce ko

(Roma, 19 ottobre 2025). In un’Europa divisa e presuntuosa, Viktor Orbán si prende una rivincita che arriva come una mazzata (politica) in fronte ai suoi critici irriducibili (sinistra italiana compresa). Per anni il premier ungherese è stato trattato come un corpo estraneo dalle capitali europee. Bruxelles lo ha bollato come populista autoritario, Berlino e Parigi lo hanno tenuto ai margini, e nel Partito Popolare Europeo la tensione è arrivata al punto di rottura. Dopo l’autosospensione di Fidesz nel 2019 e mesi di scontri, Orbán ha scelto di lasciare il gruppo nel 2021, accusando i popolari di essersi piegati alla sinistra. Sembrava un addio definitivo alla politica che conta. Oggi, invece, organizza a Budapest il vertice più atteso dell’anno: quello tra Donald Trump e Vladimir Putin. Non è un dettaglio. L’Ungheria, considerata da Bruxelles una nazione inaffidabile, diventa il crocevia della diplomazia mondiale. Orbán non ha mai interrotto i canali con Mosca, nemmeno nei momenti più tesi della guerra in Ucraina. Ha mantenuto un rapporto pragmatico con il Cremlino, difendendo il proprio interesse energetico e industriale. Quel metodo, definito «filorusso» da molti commentatori occidentali, oggi diventa una chiave di influenza. Mentre gli altri discutono di regole e procedure, Budapest ospita i protagonisti.

L’ascesa di Orbán è anche un messaggio politico. Il premier ungherese governa ininterrottamente dal 2010 (dopo un primo mandato tra il 1998 e il 2002), ha costruito un modello di potere stabile, fondato su frontiere controllate, investimenti stranieri e crescita costante. Basso debito, energia accessibile, disoccupazione minima. Non è una fiaba sovranista, ma una realpolitik coerente. In un continente che alterna prediche green e bilanci in rosso, l’Ungheria mostra una via diversa: meno ideologia, più interesse nazionale. E mentre Budapest diventa capitale della geopolitica, Bruxelles si occupa d’altro. Il 7 ottobre il Parlamento europeo, con un voto risicatissimo (306 a 305), ha confermato l’immunità per Ilaria Salis, accusata di aggressione a due militanti di estrema destra. Una scelta che sa di schiaffo politico. L’Europa «salva» la propria icona militante e continua a bocciare Orbán, accusandolo di violare lo Stato di diritto. Ma proprio pochi giorni dopo, arrivano le parole di Trump a decretare l’ennesimo schiaffo all’altezzoso atteggiamento di molti leader europei: Orbán è l’amico affidabile cui consegnare il tanto atteso vertice.

Ecco il paradosso: Bruxelles pretende di insegnare al mondo i codici della democrazia, ma non coglie il senso vero della complessità al tempo presente: basta ricordare con quanta colpevole leggerezza (e miopia) Macron, Starmer, Sanchez (e altri) si sono imbarcati sulla Flottilla verso Gaza, ottenendo la più assoluta emarginazione al vertice della tregua in Egitto. Sia chiaro, Orbán non è diventato un santo, ma è uomo con i piedi per terra. Le cancellerie europee dovranno farsene una ragione: non si guida un continente solo con la convinzione di essere moralmente superiori. Il mondo reale premia chi parla con tutti e difende i propri interessi. L’Ungheria di Orbán lo fa. E così, nei giorni in cui Bruxelles salva la Salis e accusa Budapest, Trump e Putin “atterrano” sul Danubio. La capitale che doveva restare ai margini diventa il centro. L’Europa dal dirimo alzato finisce dietro la lavagna. Bene fa l’Italia a tenersi alla larga da quella compagnia.

(Il Tempo)

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