(Roma, 04 ottobre 2025). La speranza di un rilascio immediato degli ostaggi si è trasformata in cauta attesa. Dopo aver accettato in linea di principio il piano proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Hamas ha comunicato che non potrà restituire tutti gli ostaggi entro le 72 ore previste. Un colpo di freno che riporta le trattative su un terreno più realistico, ma anche più fragile, a poche ore dalla scadenza fissata da Washington.
In una nota diffusa nella notte, un portavoce del movimento islamista aveva spiegato che “il rilascio di tutti gli ostaggi richiede coordinamento, garanzie internazionali e la fine immediata dei bombardamenti israeliani”. Non si tratterebbe, quindi, di un rifiuto, ma di una richiesta di tempo e condizioni operative migliori per mettere in pratica quanto previsto dal piano Trump.
Secondo fonti israeliane, nelle mani di Hamas restano 48 ostaggi, di cui circa 20 ritenuti ancora vivi. Gli altri sarebbero deceduti o dispersi in zone di combattimento. Dall’inizio del conflitto, 148 persone sono già state liberate e 51 corpi sono stati restituiti alle famiglie israeliane.
Il documento americano fissa un calendario serrato: cessate il fuoco immediato, ritiro graduale delle truppe israeliane, rilascio degli ostaggi entro 72 ore e successivo scambio con prigionieri palestinesi. Hamas giudica però il termine “irrealistico”, spiegando che alcuni ostaggi si trovano nelle mani di cellule non controllate direttamente, come quelle della Jihad islamica, che operano in aree del sud di Gaza.
Per questo, il movimento chiede l’intervento di mediatori internazionali, tra cui Qatar ed Egitto, per coordinare i passaggi di consegna sotto garanzia Onu. A dare una prospettiva di fiducia è il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha confermato l’avvio imminente dei negoziati.
“Le trattative inizieranno domani mattina. Sono ottimista perché si è aperto un grande spiraglio per chiudere questa terribile stagione con la carneficina a Gaza e la prigionia degli ostaggi israeliani – ha detto al Tg5 –. Noi faremo tutto ciò che è in nostro potere”. Parole che riflettono il cauto ottimismo della Farnesina e il sostegno dell’Italia alle iniziative diplomatiche coordinate da Stati Uniti, Egitto e Qatar.
Da Washington, Donald Trump ha ribadito che la scadenza resta fissata per domenica alle 18 (ora locale). Tel Aviv, da parte sua, osserva con prudenza. Il premier Benjamin Netanyahu ha confermato che Israele è pronto a “implementare subito” la prima fase del piano, ma senza dichiarare formalmente il cessate il fuoco.
L’esercito, secondo fonti locali, ha ricevuto istruzioni per ridurre le operazioni offensive e mantenere soltanto attività difensive fino a quando non si chiariranno i dettagli dell’intesa. Nel Paese cresce intanto la tensione sociale: le famiglie degli ostaggi chiedono “atti concreti, non solo promesse”, mentre la società israeliana resta divisa tra chi invoca la fermezza militare e chi vede nella trattativa l’unica via d’uscita.
A Gaza, le spaccature dentro Hamas restano profonde. L’ala politica con base a Doha preme per l’accordo, mentre i comandanti militari locali temono che accettare la smilitarizzazione significhi la fine del movimento. Senza una mediazione efficace, la prospettiva di rilascio rischia di slittare ancora, vanificando la fragile finestra di tregua.
Per ora, l’unica certezza è che le trattative inizieranno domani mattina, come ha confermato Tajani. Sarà un negoziato complesso, scandito dalle ore e dal peso delle vite ancora sospese tra Gaza e Israele. Se tutto dovesse andare per il verso giusto, domenica potrebbe segnare l’inizio della fine di una delle pagine più drammatiche del conflitto. Ma se il tempo scadrà senza accordo, la guerra rischia di riprendere più violenta di prima.
Di Ignazio Riccio. (Il Tempo)