(Roma, 10 settembre 2025). Nel giorno in cui iniziava l’Assemblea generale dell’Onu, nella quale alcuni Paesi importanti dovrebbero riconoscere lo Stato della Palestina, Israele ha bombardato negoziati e negoziatori di Hamas a Doha, in Qatar. E oggi, il caso polacco, con il premier Donald Tusk che ha chiesto l’attivazione dell’articolo 4 della Nato per lo sconfinamento di alcuni droni russi sul proprio territorio. Al solito, le escalation in Medio oriente e Ucraina viaggiano in parallelo.
Doha ha definito, legittimamente, l’attacco israeliano “terrorismo di Stato”. Una definizione ascrivibile anche al duplice attacco alla Freedom flottilla, contro civili impegnati in una missione umanitaria.
Ma tutto ciò appartiene all’impunità di Tel Aviv, che si sente libera di fare quel che vuole, in sfregio al diritto internazionale e ai più basilari diritti umani, anzitutto quello alla vita, negato ai palestinesi chiamati a evacuare a suon di bombe Gaza City per andare incontro a un destino altrettanto funesto (89 morti stanotte).
Il Qatar ha trovato un sostegno forte nei Paesi arabi, che forse iniziano a comprendere di non essere immuni dall’aggressività israeliana. Da vedere se riusciranno a uscire dalla paralisi di cui sono preda dal 7 ottobre.
Resta da dirimere il ruolo di Trump nell’attacco. Facile fare il parallelo con quanto avvenuto per l’Iran, bombardato da Tel Aviv mentre erano in corso i negoziati con gli Usa, cronologia che ha indotto tanti a reputare che la mano tesa americana serviva a far abbassare la guardia agli iraniani.
Un po’ quel che sarebbe accaduto stavolta, con i capi di Hamas indotti a riunirsi a Doha per esaminare la proposta di tregua Usa solo per essere facili bersagli. Ed è ovvio che l’U.S. Army, che in Qatar ha la più importante base regionale, fosse stata avvertita perché non interferisse o peggio.
Diverso è se l’imperatore abbia dato luce verde o sia vera la sua versione, che cioè l’avvertimento pervenutogli dall’esercito americano sia giunto tardi, così da lasciargli il tempo solo di contattare Witkoff per allarmare il Qatar (che ha smentito una previa avvertenza).
Versione che va integrata con la variabile di un eventuale sabotaggio interno, dal momento che tanti alti gradi dell’esercito e degli apparati sono consegnati al Credo delle guerre infinite, e intorbidire le acque e far slittare i tempi è facile.
Resta, comunque, la critica di Trump all’attacco israeliano, al solito querula e confusa come accade quando si tratta di Israele, con annessa, solita, dichiarazione di subordinazione alle linee guida di Tel Aviv.
Subordinazione che appare favorita dal caso Epstein, che Trump soffre. In una nota pregressa accennavamo come la vicenda fosse stata relegata nell’oblio per qualche tempo, cioè dopo che il tycoon si era defilato dal caos mediorientale.
Ma, quando Trump ha provato a rilanciare il negoziato con Hamas, con una proposta brutale, ma che Hamas avrebbe potuto accettare (da cui le bombe per impedirlo), il caso è tornato con prepotenza.
Così, alla vigilia dell’attacco a Doha, gli eredi di Epstein consegnavano al Congresso Usa un suo libro e i media imperiali, Washington Post e New York Times, nelle rispettive prime pagine (fotocopia l’una dell’altra), riportavano un’immagine tratta da esso: il disegnino di una donna nuda accompagnato da frasi allusive che Trump avrebbe realizzato per Epstein.
Non sappiamo se gli ignoti eredi di Epstein siano risorse dell’intelligence israeliana come sembra sia stato lo scomparso miliardario pedofilo, ma la tempistica interpella. Al di là del particolare, la rinnovata eplosione del caso Epstein può autare a spiegare l’arrendevolezza di Trump nei confronti di Tel Aviv, ma non ne discende necessariamente che abbia dato luce verde all’attacco.
Nel dubbio, ricordiamo come la tesi che, negoziando con l’Iran, Trump volesse tendergli una trappola, ci sembra smentita dai fatti. E registriamo come i media consegnati alle guerre infinite, israeliani e americani, siano stati i primi a parlare di un coordinamento Netanyahu-Trump per l’attacco a Doha, da cui la suggestione della trappola contro Hamas (coordinamento smentito da Netanyahu perché rischiava troppo in caso di un diniego della Casa Bianca).
Questione forse di lana caprina per quanto riguarda il Medioriente, dal momento che, come dimostrano le bombe su Hamas, Trump ha serie difficoltà a intervenire sulle criticità regionali; meno sul fronte ucraino.
Infatti, la sottolineatura dell’inaffidabilità di Trump – che è altro dall’ambiguità manifesta, che usa per pararsi dalle critiche – serve a minare i negoziati con Putin, indotto a convincersi dell’inutilità del dialogo (ma lo zar per ora resta aperto).
Così veniamo ai droni russi sconfinati in territorio polacco, che hanno spinto Varsavia a invocare l’articolo 4 della Nato, che chiama i Paesi membri a riunirsi per decidere un’eventuale risposta.
Non sappiamo come siano andati i fatti. Per ora ci sono solo le accuse di Kiev e Varsavia su un asserito attacco russo alla Polonia e le smentite di Mosca. Nell’incertezza appare plausibile quanto riferito dal ministero della Difesa bielorusso: i droni russi sono stati dirottati sia sul loro territorio che su quello polacco a causa un disturbo elettronico. Non un attacco a Varsavia, dunque, peraltro inspiegabile.
Strana ricorda come altri vettori siano caduti in Polonia senza provocare una reazione tanto spropositata, prodotta da due fattori. Il primo è il duello tra il premier polacco Tusk, sostenitore alla crociata anti-russa, e il neopresidente Karol Nawrocki, meno propenso allo scontro; con Tusk che intende usare il caso per incrementare i propri consensi.
Il secondo fattore della drammatizzazione lo riprendiamo da Strana: “Il ‘partito della guerra’ occidentale cercherà probabilmente di sfruttare la situazione dell’attacco dei droni per risolvere il suo dilemma più importante del momento: riportare il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sul piede di guerra con la Federazione Russa”.
Di Davide Malacaria – Piccolenote.it (Inside Over)