(Roma, 03 settembre). Donald Trump voleva un’America di nuovo grande ed invece si ritrova con un Paese sempre più isolato. Con gli amici di un tempo costretti a cambiare le loro alleanze storiche, per rispondere alle inutili aggressioni da parte di un vecchio alleato che, all’improvviso, si scopre dominato dalla sindrome del Marchese del Grillo
Trump non può farcela. Questo è il risultato più importante del vertice di Tianjin al di là delle parole, delle rivisitazione della storia o di qualsiasi altra cosa. Compresa una parata militare che ha richiamato alla mente le vecchie liturgie del socialismo realizzato. Con alla testa la triade: Xi Jinping, Vladimir Putin e Kim Jong-un. Il nuovo mondo, ancora più quello di domani, se le politiche non cambieranno, sarà ben diverso e di gran lunga peggiore di quello che abbiamo conosciuto.
In questo scenario, che più cupo non si può, sta tutta la cifra del fallimento della politica di Donald Trump. Voleva un America di nuovo grande (Maga: secondo lo spot elettorale scritto dappertutto e non solo sul cappello che indossa in ogni possibile occasione) ed invece si ritrova con un Paese sempre più isolato. Con gli amici di un tempo costretti a cambiare le loro alleanze storiche, per rispondere alle inutili aggressioni da parte di un vecchio alleato che, all’improvviso, si scopre dominato dalla sindrome del Marchese del Grillo.
“Io sono io e voi non siete niente”. Posso quindi disporre delle vostre economie e, se serve, anche delle vostre vite. Un atteggiamento padronale, quasi una versione occidentale dei satrapi orientali, che in un battibaleno ha annullato anni ed anni di diplomazia, ponderose analisi di politica estera, ricette da seguire in quella giungla moderna, come sono appunto le relazioni internazionali. Tutto ridotto ad inutile ciarpame. Dall’altra parte invece una platea di 23 Paesi, coinvolti a vario titolo in un progetto ambizioso.
Con un evidente risvolto anti-occidentale. Elemento che inquieta, ma fa anche riflettere. La differenza storica con coloro che hanno preferito la corte di Xi non può essere racchiusa in un semplice formalismo. Non basta intestarsi il titolo di democrazia per poi tracciare una linea di demarcazione. È necessario, al contrario, seguire un codice, che Trump, invece, non ha rispettato. Non lo ha fatto quando nello Studio Ovale ha maltrattato Zelensky. Oppure quando ha minacciato tutti (dal Canada, al Giappone, passando per l’Europa) di imporre loro la tagliola dei dazi. Nè quando ha accolto Vladimir Putin con tutti gli onori che non si devono ad un qualsiasi capo di Stato, ma ad un alleato. Se non ad un sodale come parte della stampa internazionale ha commentato.
Avendo seminato tanto vento era inevitabile che, alla fine, fosse tempesta. In altri momenti, un fallimento così clamoroso non sarebbe rimasto senza conseguenze. Avrebbe determinato reazioni che, al momento, non si vedono. Avrebbe scosso l’opinione pubblica interna, dando luogo a manifestazioni di dissenso e radicalizzato un’opposizione che, invece, è silente. Che sta succedendo, quindi, nell’America profonda? È venuta meno ogni energia? Si abbandona così, senza lottare, quella posizione egemonica che aveva segnato l’intero corso del periodo post-bellico?
Negli anni passati gli esponenti della cosiddetta “Teoria egemonica” (Kindleberger, Kehone, Gilpin) non avevano escluso la fine della US supremacy. Era tenuta nel conto: pronta a manifestarsi se i costi economici del mantenimento del sistema fossero cresciuti più rapidamente della capacità da parte degli stessi Stati Uniti di farvi fronte. È quanto si sta verificando, specialmente all’indomani della GFC (Global Financial Crisis) del 2008. Da quella data molto è cambiato nella struttura dell’economia americana. Il deficit di bilancio è divenuto persistente, collocandosi in media su valori doppi rispetto ai livelli previsti, in modo prudenziale, dai parametri di Maastricht.
Di conseguenza il debito pubblico è volato verso l’alto in una sindrome all’italiana. Come provvedervi? Qui si misura tutta la debolezza della politica di Trump. Esclusa ogni possibilità di austerity, in contrasto con l’ipotesi di ridurre ulteriormente il carico fiscale per i più abbienti, la scelta è stata quella dei dazi, nella speranza di fare cassa. Far pagare agli esportatori dei singoli Paesi un contributo variabile tra il 15 ed il 50% per sostenere le esangui finanze pubbliche americane.
Una mossa che non solo era contraria a quel Washington consensus ch’era stato il cardine dei principali insegnamenti delle grandi Istituzioni economiche internazionali, retaggio dell’egemonia americana. Ma reso ancora più ostico dalle forme odiose dell’imposizione. Quanto ai risultati, poi, si vedrà a consuntivo. Al momento ci sono solo le mirabolanti dichiarazioni del Presidente. C’era, forse, un’alternativa? Risposta affermativa. Non tanto sul piano tecnico, quanto dal punto di vista politico, misurandosi con quel principio che si chiama “condivisione”.
Nel momento in cui una leadership solitaria entra in crisi, per i motivi indicati in precedenza, si doveva tentare almeno di consolidare il vecchio sistema di alleanze. Se non estenderlo, se fosse stato possibile. Avrebbe comportato una cessione di sovranità. Il passaggio da una monarchia assoluta, com’è stato finora, ad una costituzionale. Una rinuncia? Certamente. Meglio comunque perdere qualcosa, piuttosto che rischiare il banco, di fronte a nuovi giocatori che non fanno nulla per nascondere le loro cattive intenzioni.
Di Gianfranco Polillo. (Formiche.net)