(Roma, 24 agosto 2025). Mario Draghi è tornato a parlare dal Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dalla stessa platea dove cinque anni fa diede sostanza al programma che avrebbe plasmato la sua agenda di governo dal febbraio 2021 al settembre 2022. Questa volta il suo bersaglio, nel discorso di venerdì, è stata l’Europa. Un’Europa vista come debole, chiamata a un ruolo ancillare, incapace di tenere una posizione solida o di giocare un ruolo nelle grandi crisi globali, che nel 2025 ha scelto di diventare consapevolmente comprimaria e ininfluente nella storia. Insomma, un’Europa ormai retrocessa nella Serie B delle potenze.
Draghi ricorda che quella di Donald Trump è stata una “sveglia brutale” per Bruxelles e nota il peso dei “dazi interni”, della ridotta competitività, dell’assenza di scala degli investimenti produttivi. Insomma, un affondo in piena regola verso la mai nominata Ursula von der Leyen, la cui presidenza della Commissione sembra essere sonoramente bocciata dal grand commis romano, già governatore di Banca d’Italia e Bce prima ancora che presidente del Consiglio dei ministri italiano. Ma nel discorso di Draghi sembra a nostro avviso mancare qualcosa: la mossa con cui l’ex premier scende in campo, le indubbie rilevazioni della debolezza dell’Ue e il netto giudizio su un’Ue che ha scelto di “rimanere spettatrice” di fronte a un mondo competitivo, sembrano lasciare il diretto interessato sullo sfondo.
Draghi sembra un osservatore esterno, qualcuno che non c’è mai stato e soprattutto non è stato nelle stanze dei bottoni per decenni. Possiamo capire l’applicazione dell’adagio “When facts change, I change my mind” caro a John Maynard Keynes. Possiamo anche comprendere lo scoramento per veder preso a modello, e poi non applicato, il corposo e dettagliato rapporto sulla competitività consegnato a von der Leyen a settembre 2024. Ma appare quantomeno difficile escludere Super Mario dal novero di quei decisori che, come Draghi ha ricordato, hanno portato l’Europa a bearsi dell’illusione che poter vantare un mercato di 450 milioni di consumatori significasse ottenere in automatico un reale peso geopolitico.
Negli ultimi decenni, tra Roma e Francoforte, Draghi è stato uno dei protagonisti dell’Europa e negare che il fallimento è quello di una élite intera rischia di far prevalere l’elemento di distinguo dall’attuale corso della Commissione Europea in carica pro tempore sul reale elemento strutturale, che indica un trend di declino generalizzato. Certo, a Draghi si può riconoscere il fatto che in uno dei momenti di massimo autolesionismo europeo, l’austerità del 2011-2015, la sua Bce provò a contenere le spinte più dure dei rigoristi. Ma non si può, al contempo, non dimenticare le responsabilità sulla Grecia e il suo waterboarding economico o l’illusione di poter spingere, all’inizio del conflitto in Ucraina, la Russia al tracollo in breve periodo.
Soprattutto, Draghi è stato a lungo, forse fino al Trump 2.0, un convinto fautore dell’asse transatlantico e un pontiere tra Bruxelles e Washington. L’attuale classe dirigente europea sconta il principale peccato di aver creduto eccessivamente all’inesorabilità di questa partnership, a una postura transatlantica destinata a durare oltre ogni accidente della storia, nonostante i venti di guerra economica, l’indebolimento dell’Ue nella strategia geopolitica Usa su Medio Oriente e Russia e, da ultimo, l’assedio tariffario americano. Trump è stato un brusco risveglio per molti. Anche per Draghi. Che non può dimenticare di esserci stato quando molte scelte venivano fatte, al netto dell’indubbia attualità di molti suoi appunti alle tecnostrutture comunitarie.
Di Andrea Muratore. (Inside Over)