(Roma, Parigi, 12 luglio 2025). Dalla crisi economica del 2007-2008, fino alla guerra in Ucraina, l’analisi di Gianfranco Polillo sulla situazione geopolitica attuale e le preoccupazioni espresse dal cancelliere tedesco, durante la Conferenza di Roma sull’Ucraina, che ha invitato Trump a rimanere unito agli alleati
Avrebbe detto Friedrich Merz, il cancelliere tedesco, al margine della Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina, secondo quanto riportato dalla stampa: “Vogliamo mandare un doppio messaggio. A Putin diciamo: attento noi non molleremo. A Trump: stai con noi europei, perché siamo sulla stessa barca”. Affermazioni pesanti, su cui è necessario riflettere, superando le interpretazioni che circolano in merito ad una doppia questione. Da un lato l’orrore di questa guerra, scatenata per ragioni che, ancora oggi non è facile capire. E che nella sola Russia, secondo le recenti affermazioni del generale Keith Kellogg, è costata più “di un milione di soldati”.
Quasi venti volte le perdite americane nella guerra del Vietnam e quasi 80 le perdite russe in Afghanistan. Dall’altro la postura del presidente americano, Donald Trump, interpretata come se ci trovassimo di fronte a un mutante enigma, considerata la contraddittorietà dei comportamenti tenuti, fin dall’inizio della sua elezione. Per quanto riguarda il primo punto è facile cogliere tutti i limiti della cosiddetta “operazione militare speciale”. Doveva essere un’operazione fulminea, una blitzkrieg (guerra lampo), grazie all’uso di migliaia di carri armati, ammassati imprudentemente lungo le vie di accesso a Kyiv e, quindi, facile bersaglio dell’artiglieria ucraina. Da quel 24 febbraio del 2022 sono passati più di tre anni in una guerra senza quartiere che ha cambiato il sentiment internazionale nei confronti della Russia. Facendo rimpiangere quella presenza, quasi più rassicurante, della vecchia Unione Sovietica. Di cui, per altro, Vladimir Putin non ha fatto altro che imitare le scelte più brutali.
In un primo momento le giustificazioni del Cremlino si riferivano solo al Donbass. L’esercito era dovuto intervenire per difendere le popolazioni russofone dagli attacchi degli estremisti di destra: i cosiddetti neo-nazisti, secondo la relativa propaganda. Nel 2008 con le stesse motivazioni si era verificato l’intervento militare in Georgia, e nel 2014 in Crimea. Intervento che aveva portato alla conquista di piccoli spazi, se paragonati alla dimensione territoriale degli invasori, rinverdendo un vecchio mito, questo sì, caro alla Germania nazista: quello secondo il quale Hitler non avrebbe esitato ad intervenire in tutti quei territori, come i Sudeti, in cui si poteva riscontrare una presenza tedesca. In quel caso circa il 30% degli abitanti della Cecoslovacchia erano, appunto, tedeschi.
Conquistato il 20% del territorio ucraino, ci si sarebbe dovuti aspettare una propensione da parte russa al raggiungimento di una tregua, come pre-condizione per una pace successiva. O, in caso contrario, la riproposizione di uno schema come quello in essere tra le due Coree. Niente di tutto questo, al contrario una forte intensificazione dei bombardamenti nei confronti dei civili, al punto da spingere lo stesso Donald Trump a superare le vecchie posizioni isolazioniste dei giorni precedenti. Consapevoli dell’esistenza di questa contraddizione, ecco allora una nuova giustificazione: non si tratta di un’invasione. Ma di una sorta di intervento di polizia, com’era avvenuto in Ungheria nel 1956 ed in Cecoslovacchia nel 1968. L’Ucraina, infatti, non è una nazione, secondo questa nuova versione, ma parte integrante della Russia. Come se la storia si fosse improvvisamente fermata a Praga in Piazza San Venceslao: il luogo in cui Jan Palach, per protestare contro l’invasione dell’armata rossa, si cosparse di benzina dandosi fuoco.
Nuova inverosimile teoria. Se prima del 24 febbraio, di tre anni fa, un sentimento nazionale poteva essere esclusivo appannaggio di élite illuminate, in Ucraina, oggi è patrimonio comune di un popolo che, nell’orrore della guerra, ha scoperto il valore della propria libertà. Non ci potrà essere tregua con coloro che hanno le mani lorde del sangue versato. Che si sono macchiati di crimini orrendi. Che sono responsabili delle migliaia di morti che hanno funestato il presente di una Nazione, che si è appena formata. Ne deriva che, forse, Putin potrà vincere una battaglia, ma quanto a vincere la guerra, l’impresa appare quasi impossibile. Anzi la Russia ha ormai una spina rovente infilata nel fianco che è destinata a bruciare. Alimenterà un antagonismo di lungo periodo, destinato a produrre forme di lotta che oggi non sono individuabili. Ma che, come in Afghanistan, non faranno dormire ai dominatori sogni tranquilli.
Donald Trump dovrebbe cogliere questi elementi e comportarsi di conseguenza. Non nell’interesse degli europei, ma degli stessi Stati Uniti. Che sono comunque cosa diversa dalla postura del suo Presidente pro-tempore. La sua “resistibile ascesa” è stata, principalmente, il prodotto di circostanze eccezionali. Non solo la crisi del Partito democratico nel gestire la campagna elettorale, ma la conseguenze di un mezzo fallimento delle élite che hanno guidato quel grande Paese, soprattutto a partire dagli inizi del Terzo Millennio. Quando Bill Clinton plaudì all’ingresso della Cina nel WTO (World Trade Organization), non essendo riuscito a scorgere le incongruenze di una globalizzazione arrembante, che già spostava l’onda della storia a favore delle periferie del mondo. Una deriva destinata a durare. Una sorta di lento suicidio, quello occidentale, alimentato, soprattutto agli inizi, dai grandi interessi delle stesse compagnie americane che producevano all’estero, a costi molto più contenuti, per poi vendere sul loro mercato d’origine, realizzando inimmaginabili profitti.
Nel frattempo il peso della finanza sull’economia reale cresceva a dismisura, orientando sempre di più la politica economica nazionale: aggirando i controlli degli organi preposti, a partire dalla Fed (Federal Reserve Bank) e dalla Sec (Securities and Exchange Commission). Per capire il clima di quegli anni, basti pensare alla fortuna che ebbero gli economisti esperti di algoritmi in grado di frazionare fino al limite il rischio dei singoli investimenti. Da qui la varietà di veicoli, sempre più complessi, posti a disposizione del mercato, ma sempre meno decifrabili nei loro effettivi contenuti. Un mondo cresciuto come un soufflé fino alla grande crisi del 2007/08, segnata dal fallimento della Lehman Brothers e dal crollo del mercato dei subprime.
Il fenomeno Trump è, ed è stato, soprattutto il prodotto di quegli avvenimenti. E delle conseguenze, più o meno catastrofiche che hanno inciso sul tessuto non solo dell’economia, ma della società americana. Intere zone industriali che venivano spazzate via da altre aziende, in gran parte americane, estero vestite. Un dilatarsi delle differenze sociali con un vertice, sempre più ristretto e più ricco, e la restante moltitudine. Con blue e white collars confinati ai margini della vecchia società del benessere. Fino all’esplodere di una rabbia che ha gonfiato le vele del tycoon dopo aver affondato entrambi i partiti in lizza.
Considerato che il Partito Repubblicano, che fu di Reagan e di Bush, era finito da tempo. Sostituito dalla nuova forma plasmata dallo stesso Donald. Se si guarda con il necessario disincanto a questi avvenimenti è facile comprendere tutte le incertezze, i cambiamenti repentini di umore e di prospettiva, della Casa Bianca. Al di là del dato caratteriale del Presidente, essi dimostrano quanto sia difficile trovare oggi la quadratura del cerchio. Individuare cioè una linea di politica capace di ridare smalto ad un Paese che non ha più le risorse degli anni passati, in grado di alimentare la stessa politica di potenza.
Da qui un susseguirsi di scelte intimamente contraddittorie e controproducenti (dai dazi, alla querelle con l’Europa, passando per il big beautiful bill) che non solo rischia di non risolvere la crisi, ma di aggravarla ulteriormente. Si spiega così l’invito, ma anche le preoccupazioni, di Merz. L’isolazionismo americano, che fu caratteristica della politica estera americana soprattutto nell’Ottocento, andava bene (ma c’è da dubitarne) per quel periodo. Ma riproporlo oggi è solo guardare indietro. Cercando di rimettere nel tubetto il dentifricio che è appena uscito.
Di Gianfranco Polillo. (Formiche.net)