(Roma, 21 giugno 2025). La guerra tra Israele e Iran, dopo oltre una settimana, sta presentando importanti scenari strategici ancora in via di consolidamento ma la cui lettura consente di farsi strada tra propagande estremamente viscose e capire come il conflitto più problematico della storia recente del Medio Oriente possa evolversi e plasmare la regione.
Narrazione contro realtà, la guerra di Israele all’Iran
Come ogni guerra, quella tra Tel Aviv e Teheran è fatta di narrazioni oltre che di fatti. Narrazioni che spesso si rivelano quantomeno fallaci alla prova dei fatti concreti e che vanno presentate come tali. Lo notiamo dall’atteggiamento degli attori in campo, direttamente e non, nella guerra, cambiata con forza nei giorni in cui questo conflitto si è sviluppato.
Il primo trend, duplice, è la premessa necessaria a tutto il resto., Notiamo infatti che la giustificazione israeliana di una guerra preventiva volta a evitare il rapido accesso di Teheran a una forma di deterrente nucleare è risultata insufficiente a spiegare la reale volontà di Tel Aviv di scendere in guerra, giustificata in realtà dal tentativo di indebolire, minare alle fondamenta il regime iraniana.
Dopo il bombardamento di Be’er Sheva di giovedì, il ministro della Difesa di Benjamin Netanyahu, Israel Katz, lo ha messo in chiaro indicando nell’Ayatollah Ali Khamenei un bersaglio militare legittimo. Negli stessi giorni, il direttore dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (Aiea) Rafael Mariano Grossi ha respinto al mittente l’ipotesi che, nonostante fosse stato criticato dall’organo di Vienna per aver violato i suoi obblighi sulla proliferazione, l’Iran stesse davvero accelerando sulla possibilità di dotarsi della Bomba per antonomasia.
Il regime non crolla
In secondo luogo, notiamo che nonostante i durissimi colpi subiti e il continuo sfoltimento dei ranghi apicali delle forze armate, l’apparato di potere iraniano non è collassato. L’architettura barocca che alla struttura fondata sul ruolo della Guida Suprema e dei Guardiani della Rivoluzione sovrappone il governo vero e proprio e le forze armate tradizionali si è dimostrata più elastica del previsto.
In particolare, la narrazione di Netanyahu ripetuta da molti esponenti del campo liberale e conservatore in Europa e Stati Uniti circa il fatto che la liberazione dell’Iran dall’attuale sistema di potere sarebbe arrivata sulla scorta dei raid di Tel Aviv non si è concretizzata. Prescindendo dal giudizio complessivo sul sistema della Repubblica Islamica e sulla Guida Suprema si nota che un regime in difficoltà su molti fronti, dall’economia in crisi alle pressanti domande sociali, non ha ad oggi alternative credibili nella società iraniana, che l’idea di esportare un sistema democratico con le bombe, vecchia tentazione che ritorna, appare quantomeno fallace e che la linea della risposta a Israele sul campo non ha causato proteste o sommovimenti.
Khamenei rifiuta la resa, il sistema-Iran non collassa
In tal senso, ha avuto valenza politica notevole il discorso di Khamenei di giovedì in cui ha rifiutato ogni ipotesi di “resa” del Paese, come chiesto dal presidente Usa Donald Trump, dettando una linea e sfidando eventuali contrari a farsi avanti: nessun contrasto sembra essere emerso nella pur difficilmente penetrabile architettura del regime iraniano.
A conti fatti, l’Iran sta incassando duri colpi dall’offensiva aerea e missilistica iraniana e prova a rispondere con una deterrenza missilistica ben più ridotta ma che non è parsa inesistente, tutt’altro. Ad oggi, in sostanza, l’attacco di Tel Aviv non ha ancora provocato il totale smantellamento del nucleare, non ha finora, confermano anche dal Jerusalem Post, aperto crepe insanabili nel regime e non ha, terzo punto del confronto tra narrazione e realtà, convinto gli Stati Uniti a entrare in guerra per dare un colpo decisivo a Teheran, evitando ogni soluzione diplomatica.
Il dilemma americano e l’ora della diplomazia
Trump è stato tirato per la giacca da molte parti: diversi falchi nel Partito Repubblicano, guidati dai senatori Ted Cruz e Lindsey Graham, spingono per la discesa in campo a fianco di Israele e lo stesso sembra pensarlo il generale Michael Erik Kurilla, alla guida del Comando Centrale (Centcom) titolare delle operazioni per il Medio Oriente.
Al contempo, si registra la freddezza dell’ala vicina al vicepresidente J.D. Vance e di politici, commentatori e opinion maker vicini al mondo Maga, come l’anchorman Tucker Carlson. Ma nella giornata di giovedì The Donald ha dichiarato di voler dare un nuovo spazio alla diplomazia, aprendo una finestra di due settimane per possibili incontri diplomatici con i vertici di Teheran.
La «resurrezione» di Shamakhani
Su questo tema, delle notizie interessanti sono degne di nota: innanzitutto, dopo che Trump ha aperto questa finestra, dall’Iran è giunta la notizia che l’ammiraglio Ali Shamakhani, alto consigliere di Khamenei e figura centrale nella diplomazia atomica con Washington, è vivo e in ripresa dalle ferite subite il 13 giugno durante gli attacchi israeliani che hanno inaugurato la guerra. A proposito di narrazioni: Shamakhani era stato dichiarato morto sulla scorta dei bollettini militari israeliani che ne dichiaravano l’eliminazione.
Tel Aviv pensava di aver ucciso l’abile negoziatore che fino a un mese fa presentava richieste quantomeno moderate nel confronto con Washington: apertura alla rinuncia dell’uranio ampiamente arricchito, confronto diretto e continuo con gli Usa, spinta alla de-escalation. La notizia della sopravvivenza di Shamakhani apre alla possibilità che si ricrei l’asse col Ministro degli Esteri Abbas Araghchi in nome della de-escalation. Ieri dei primi colloqui hanno avuto luogo a Ginevra con le diplomazie dell’E3, Francia, Germania e Regno Unito.
A proposito di cambi di narrazione: l’Europa che non è scesa in campo nei negoziati avviati ad aprile da Usa e Iran e all’inizio della guerra ha sostanzialmente sposato la narrazione israeliana e i raid è passata ora a un più preoccupato approccio aperto a negoziazioni e al cessate il fuoco. La prematura volontà di correre in soccorso al (presunto) vincitore ha avuto il suo apice nei giorni del G7, quando il cancelliere Friederich Merz ha dichiarato che Israele sta “facendo il lavoro sporco per tutti noi”. La situazione si è dimostrata, come direbbe Giulio Andreotti, “un po’ più complessa”. E la narrazione, eterna piaga della politica internazionale, ha ceduto il passo al pragmatismo e a un maggior realismo. Quello che negli affari internazionali dovrebbe esser sempre il benvenuto.
Di Andrea Muratore. (Inside Over)