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Armenia, Siria e ora Iran : il declino della Russia come potenza internazionale

(Roma, 21 giugno 2025). La crescita, che è stata del 4,3% nel 2024 dovrebbe, secondo le stime, raggiungere a malapena l’1,2% nell’anno in corso

« Una tempesta perfetta »: German Gref, numero uno della potente Sberbank, ieri ha riassunto così la situazione dell’economia russa. Il giorno prima, sempre al Forum di San Pietroburgo, era stato il ministro dell’Economia Maxim Reshetnikov a parlare di un paese sull’orlo della recessione. La crescita, che è stata del 4,3% nel 2024 dovrebbe, secondo le stime, raggiungere a malapena l’1,2% nell’anno in corso. Se si tiene conto del potente stimolo keynesiano rappresentato dall’industria bellica, che lavora al limite delle proprie capacità, e del denaro distribuito alle famiglie dei soldati (vivi e morti) che ha spinto non poco i consumi nelle aree più periferiche, si ha il quadro di un Paese che nei fatti è già in stagnazione. « Colpa degli alti tassi di interesse », dicono gli industriali. E colpa, implicitamente, dell’inflessibile governatrice Elvira Nabiullina che ha fin qui resistito, per paura dell’inflazione, a smuoverli dall’attuale 20%.

Non è un caso che in molti vedano nelle uscite di Gref e Reshetnikov una specie di gioco delle parti voluto da Vladimir Putin, che sempre ieri si è assunto il ruolo di capo supremo incaricato di tirare le fila del dibattito: « Non è possibile che il Paese vada in recessione ». Un ammonimento generico, ma in realtà probabilmente rivolto alla « dama di ferro » della banca centrale, che ha l’indiscusso merito di aver mantenuto saldo il timone monetario e finanziario in tre anni e mezzo di guerra e che quindi non si può liquidare con metodi troppo spicci.

Nabiullina o no, l’economia ha le sue leggi che si riflettono sui rapporti internazionali: al rallentamento della congiuntura corrisponde una perdita di peso nell’interscambio con quelli che una volta erano considerati fidati satelliti. Nel 2024 la Russia ha perso il posto di primo partner commerciale del Kazakistan. Era già così per Uzbekistan, Turkmenistan e Kirgizistan. Adesso da quelle parti a farla da padrone è la Cina. E Xi Jin Ping era l’ospite d’onore del vertice dei Paesi dell’Asia centrale che si è svolto da lunedì a mercoledì di questa settimana ad Astana. C’erano tutti, ma non la Russia.

È un altro segnale dell’ormai forzata immobilità di Mosca sull’arena internazionale. Impegnato con tutte le sue risorse nel conflitto ucraino il Cremlino non riesce più da tempo a incidere nemmeno nelle controversie che si accendono periodicamente vicino alle sue frontiere. A saperne qualche cosa sono gli armeni, uniti ai fratelli russi dalla comune fede ortodossa. Nel settembre del 2023 l’Azerbaijan musulmano ha compiuto una sorta di « pulizia etnica » nella regione contesa dal Nagorno-Karabach. I militari russi che operavano come forza di interposizione si sono fatti da parte. Non avevano le risorse per comportarsi altrimenti e, soprattutto, gli azeri si muovevano con il via libera della Turchia di Recep Tayyip Erdogan, un leader che in questo momento Mosca non può permettersi di scontentare. Ora l’Armenia « tradita » sta cercando di rafforzare i suoi rapporti con l’Occidente.

Molto più lontano ma seguendo lo stesso schema, l’anno scorso è stata la volta della Siria. In poche settimane il regime di Bashar al-Assad è stato travolto, i russi non hanno mosso un dito. Un comportamento ben lontano da quello che nel 2015 aveva visto Mosca mobilitare truppe e bombardieri a difesa del cinquantennale regime degli Assad. Ora Bashar, con famiglia e clan allargato, è rifugiato in Russia. Un paio di mesi fa si era diffusa la voce che le nuove autorità siriane avevano chiesto al Cremlino di estradare il presidente deposto, in cambio del permesso per Mosca di mantenere le basi militari nel Paese arabo. Le trattative tra i due regimi sono circondate dal riserbo più assoluto.

Con la crisi attuale tra Israele ed Iran le cose non sono andate molto diversamente. A inizio anno Mosca e Teheran avevano stretto una « partnership strategica », non un’alleanza militare che impegnasse il Cremlino, ma un’intesa che garantisse ai russi l’afflusso dei droni dimostratisi così preziosi sul fronte ucraino. A quanto pare gli iraniani si aspettavano in contropartita assistenza e competenze nel campo soprattutto dei velivoli da bombardamento. Ma prima che potesse concretizzarsi qualche vantaggio a favore di Teheran sono arrivati i razzi di Netanyahu. E i russi non hanno battuto ciglio. I commentatori della stampa vicina al Cremlino hanno fatto a gara a sottolineare i vantaggi per Mosca della situazione. Sopratutto due: un prezzo del petrolio più alto garantisce maggiori introiti e il focus sul Medio Oriente può facilitare una sorta di distrazione occidentale per i destini e i rifornimenti all’Ucraina.

Di Mosca si è parlato anche come rifugio per Khamenei e i vertici del regime islamico. Se si eccettuano le vibrate proteste affidate al Ministero degli Esteri non c’è stato altro. E sui rapporti di collaborazione Putin personalmente è rimasto sul vago. « A suo tempo abbiamo offerto agli amici iraniani di lavorare al sistema di difesa aerea » ha detto in una conferenza stampa. « Loro non hanno mostrato molto interesse e questo è tutto ». Secondo alcuni diplomatici e funzionari del Cremlino interpellati dall’edizione russa del Moscow Times i russi sono rimasti spiazzati dagli avvenimenti: « Credevamo che Trump volesse mantenere l’aura del pacificatore e che avrebbe cercato di impedire un attacco da parte di Israele », ha dichiarato un ex alto funzionario. Ora gli uomini di Putin non sono più in grado di reagire.

La debolezza si è riflessa anche sull’andamento dei lavori del Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo che si è svolto in questi giorni. Da sempre è una vetrina rivolta a investitori e osservatori stranieri. Quest’anno è stata di fatto limitata solo a partecipanti locali. Oltre che di crisi economica nelle occasioni pubbliche si è ovviamente parlato di guerra. Putin ha rispolverato un vecchio cavallo di battaglia: « I russi e gli ucraini sono un unico popolo, e in questo senso tutta l’Ucraina è nostra ». Lo diceva anche tre anni fa.

Ma in questo momento Mosca deve fare i conti con una realtà: di alleati veramente fidati non è rimasta che la Corea del Nord. L’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu è arrivato nei giorni scorsi a Pyongyang per una serie di incontri ad alto livello.

Tra le decisioni prese la costruzione di alcuni monumenti in onore dei soldati coreani morti in Ucraina, l’invio di mille militari specializzati in attività di sminamento e di 5mila lavoratori per la ricostruzione. Il Cremlino ha proclamato la sua grande soddisfazione per l’esito dei colloqui.

Di Angelo Allegri. (Il Giornale)

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