(Roma, 14 giugno 2025). Il Pentagono sposta le unità navali verso le coste israeliane e incrementa la flotta di F16
Il Pentagono sposta unità navali e rimpolpa basi e US Navy con caccia F16 a difesa di Israele. Il cacciatorpediniere Thomas Hudner ha lasciato il Mediterraneo occidentali per avvicinarsi alle coste israeliane. È dotato di batterie per intercettare missili balistici. Una seconda nave da guerra ha ricevuto l’ordine di spostarsi nell’area. Nelle scorse settimane, il Pentagono aveva trasferito unità di batterie anti-droni dall’Ucraina al teatro mediorientale. Altri sistemi di difesa antiaerea sono entrati in funzione ieri sera contro i missili iraniani, fa sapere una fonte Usa ad Axios.
Washington è dalla parte di Israele ed è pronta a difendere dalla rappresaglia «l’alleato principale», come lo ha definito Trump in una delle numerose e brevi telefonate che ieri ha fatto con i reporter di alcune testate americane per illustrare la sua posizione. Ieri sera Trump e Netanyahu si sono sentiti ancora per fare il punto della situazione. A tutti ha ripetuto che da Israele non è arrivato un avvertimento, non ce ne era bisogno, perché l’Amministrazione era pienamente al corrente dei piani di attacco.
In aprile, la data indicata da Netanyahu per colpire, il presidente era riuscito a inceppare il grilletto del premier. Quando “Bibi” venne a Washington per discutere di dazi – primo leader a vedere il presidente dopo il Liberation Day del 2 aprile – accettò di dare spazio alla diplomazia, che Trump aveva nel frattempo riavviato, prima di ricorrere alla forza. Era sembrata una visita con pochi frutti per Netanyahu. In realtà Trump gli aveva ribadito che l’Iran non avrebbe mai avuto l’atomica. La minaccia di un’azione muscolare era sul tavolo. E aveva dato un ultimatum alla Repubblica islamica. Che ieri ha ricordato: «Avevo detto a Teheran: avete 60 giorni per un accordo. Il 61esimo (Israele, ndr) ha attaccato».
Che la diplomazia fosse la strada maestra per Trump era chiaro dalle aperture mostrare verso il regime. Cinque tornate di negoziati con un sesto colloquio fissato per domani a Muscat; una proposta di intesa – cui non c’è risposta iraniana – sull’uranio arricchito da eliminare, la possibilità data a Teheran di mantenere una quota di uranio con basso grado di arricchimento per uso civile.
Nelle ultime settimane c’è stata un’accelerazione. Il report dell’Aiea sulle 10 atomiche che Teheran può produrre poiché continua ad arricchire l’uranio è arrivato – coincidenza anomala – allo scadere dell’ultimatum. Domenica a Camp David, Trump aveva parlato di Iran con i consiglieri e i ministri, lunedì ha avuto una telefonata con Netanyahu che gli ha detto che la finestra dell’offensiva si sarebbe aperta fra giovedì e venerdì. Sia giovedì sia ieri, prima che Trump riunisse il suo team nella Situation Room, i due leader si sono parlati.
Questa settimana i contatti fra i vertici dell’Amministrazione e i consiglieri di Netanyahu sono stati fitti.
Il segretario di Stato, Marco Rubio, nel suo primo commento giovedì notte aveva parlato di azione unilaterale israeliana e negato qualsiasi coinvolgimento Usa. Ieri la Casa Bianca ha ribadito che «non ci sono piani per unirsi agli attacchi contro l’Iran» sgomberando il campo da ipotesi di un’America coinvolta in prima persona. Tuttavia, lo stesso presidente – a dimostrazione di quanto Washington fosse consapevole dei piani israeliani – ha sottolineato che l’aviazione dello Stato ebraico ha usato «armi letali americani, le sanno utilizzare». Ci sarebbe stata, a quanto risulta a La Stampa, anche una sorta di collaborazione a livello di intelligence: gli Usa avrebbero fornito dati in tempo reale, prima e dopo i raid, su molti obiettivi, agli israeliani. Trump continua a confidare che il messaggio recapitato a Teheran possa indurre il regime a continuare i negoziati sul nucleare già domani a Muscat. Cancellati però dagli iraniani mentre Donald ribadiva con comprensibili dosi di realismo «che è improbabile». «De-escalation e risoluzioni di tutte le dispute attraverso gli strumenti della diplomazia», sono stati al centro della telefonata fra il saudita Mohammed bin Salman e Trump.
In ambienti vicini all’Amministrazione si fanno notare tre cose: la prima è che il centro sotterraneo di arricchimento dell’uranio a Fordow non è stato ancora bersagliato. Servono bombe ad alta penetrazione Usa o operazioni di truppe speciali o ancora un attacco cyber. In secondo luogo, si evidenzia che Israele non ha bersagliato le strutture energetiche. È un messaggio che ha un doppio scopo, spiega Kenneth Pollack, già consigliere sull’Iran di Clinton, in un briefing cui La Stampa ha partecipato: da una parte si vuole colpire la Repubblica islamica non la popolazione. E dall’altra c’è il timore delle ripercussioni sul mercato globale e l’innalzamento dell’inflazione negli Usa. Infine, c’è un terzo corno: la leadership politica è stata risparmiata. Un avvertimento: «Vogliamo i negoziati, l’Iran ha forse una seconda chance», ha detto il presidente sottolineando che «arriverà ancora molto».
Di Alberto Simoni. (La Stampa)