(Roma, 11 giugno 2025). Il Segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha annunciato nuovi e significativi obiettivi di spesa per la difesa, tra cui un aumento del 400% delle difese aeree e missilistiche e l’acquisto collettivo di almeno 700 caccia F-35 da parte degli alleati, Stati Uniti esclusi. Dalla Chatham House di Londra, e in previsione del prossimo vertice dell’Alleanza all’Aia, Rutte ha delineato un piano di trasformazione per rafforzare la deterrenza e le capacità operative della NATO in risposta alla minaccia rappresentata dalla Russia e dai suoi partner strategici.
Il prossimo vertice dell’Alleanza sarà storicamente ricordato per un ulteriore aumento richiesto agli alleati come quello del Galles del 2014: stavolta verrà richiesto di elevare la percentuale di PIL per la Difesa al 5%. Rutte ha chiarito che non si tratta di un obiettivo simbolico, ma di un obiettivo radicato in concrete esigenze operative. “Il 5% non è una cifra campata in aria, è basato su fatti concreti. Il fatto è che abbiamo bisogno di un salto di qualità nella nostra difesa collettiva. Il fatto è che dobbiamo avere più forze e capacità per attuare appieno i nostri piani di difesa. Il fatto è che il pericolo non scomparirà nemmeno quando la guerra in Ucraina finirà”.
In effetti, da più parti – non solo da quei Paesi dell’Europa orientale che più sentono la minaccia russa – si ritiene, dati alla mano, che l’eventuale termine del conflitto ucraino non diminuirà la potenziale minaccia del Cremlino al suo intorno geografico, stante l’andamento di un’economia fortemente improntata al sostegno bellico, l’aumento delle spese per la Difesa che è pressoché una costante in Russia da circa 20 anni, e la retorica del Cremlino riguardante la “protezione” delle minoranze russofone nei Baltici. La spesa per la Difesa di Mosca in percentuale di PIL, infatti, è stata dal 2000 sino a oggi costantemente al di sopra del 3% con picchi del 3,92% nel 2009 (post invasione della Georgia), del 5,43% nel 2016 (Crimea e sostegno all’insurrezione in Donbass) e del 5,86% nel 2023. Recentemente poi, Mosca ha varato un piano di profondo rinnovo generale della sua flotta – in considerazione delle lezioni apprese nel Mar Nero – che è stato stimato in 100 miliardi di dollari.
Tornando al Segretario Rutte, secondo il piano “il 3,5% sarà investito nei nostri principali requisiti militari. Mentre il resto sarà destinato a investimenti in difesa e sicurezza, comprese le infrastrutture e la creazione di capacità industriale”. La scorsa settimana, i ministri della Difesa della NATO hanno concordato nuovi obiettivi in termini di capacità. Sebbene riservati nei dettagli, l’entità dell’ambizione è pubblica: “Abbiamo bisogno di un aumento del 400% della difesa aerea e missilistica”, ha affermato ancora Rutte. “Vediamo in Ucraina come la Russia diffonde il terrore dall’alto. Quindi rafforzeremo lo scudo che protegge i nostri cieli”. Gli obiettivi richiedono anche una massiccia espansione delle forze convenzionali e di supporto: “Le nostre forze armate hanno bisogno anche di migliaia di veicoli corazzati e carri armati in più. Milioni di proiettili di artiglieria in più. E dobbiamo raddoppiare le nostre capacità abilitanti, come logistica, rifornimento, trasporto e supporto medico”.
L’acquisto di 700 F-35 da parte degli alleati riflette sia il successo della macchina, ormai prossima alla piena maturità, sia la ricerca di una maggiore interoperabilità all’interno dell’Alleanza, e insieme alle maggiori risorse destinate dai singoli Paesi, anche e soprattutto considerando il piano di riarmo dell’Unione Europea, significa spostare la maggior parte dell’onere della sicurezza sulle spalle europee. Rutte ha riferito che ci saranno maggiori investimenti anche in droni e sistemi missilistici a lungo raggio nonché nelle capacità spaziali e informatiche.
Il Segretario ha concluso sottolineando la gravità del compito della NATO: “È chiaro che se non investiamo di più, la nostra difesa collettiva non sarà credibile. Spendere di più non significa accontentare un pubblico di una sola persona, ma proteggere un miliardo di persone”. La proposta completa sarà al centro delle discussioni del Vertice NATO dell’Aia, dove si prevede che i leader alleati adotteranno il piano come pietra angolare del prossimo capitolo strategico dell’Alleanza.
Perché è difficile abbattere un drone
Il conflitto ucraino, dopo aver svegliato le coscienze europee intorpidite da troppi anni dalla falsa convinzione di una pace duratura post Guerra Fredda, e dopo 30 anni di tagli al bilancio della Difesa pressoché costanti almeno sino al vertice NATO in Galles del 2014, ha finalmente fatto emergere quello che gli addetti ai lavori sapevano da tempo: la difesa missilistica europea è del tutto inadeguata a sostenere un’offesa aerea moderna e complessa come quella che stiamo osservando in questi anni di guerra. I tagli al bilancio della Difesa hanno comportato una sciagurata riduzione dei sistemi missilistici da difesa aerea (insieme a molto altro), al punto che l’Europa (e gli USA) non ha potuto venire incontro totalmente alle richieste ucraine. Ora, sebbene almeno a livello di alcuni Paesi (tra cui l’Italia) questa tendenza si sia invertita, esiste un’altra minaccia molto più complessa da affrontare, data dagli attacchi in massa di droni one way (o droni kamikaze): la Russia – ma ancora prima l’Ucraina – ci sta mostrando un nuovo modo di condurre l’offesa aerea, usando ondate di droni kamikaze (tra i 400 e i 600 per volta) per colpire a tappeto gli obiettivi nel territorio avversario. I missili da crociera, e quelli balistici, vengono preservati per obiettivi particolarmente paganti o induriti.
Difendersi da un drone, soprattutto se di piccole dimensioni, richiede un ripensamento dell’intera kill chain della difesa aerea che deve essere integrata con sistemi anti-UAV di punto, possibilmente non missilistici e ancora meglio non cinetici per evitare di dissanguare le finanze. Da questo punto di vista, anche la missione di protezione del traffico marittimo nel Mar Rosso sta dando gli stessi risultati: abbattere un drone, oltre a essere difficile, è costoso se si usano missili invece di artiglierie o mezzi a energia diretta. La nostra Marina Militare, ad esempio, ha abbattuto sino a oggi 8 droni Houthi: 3 con le artiglierie di bordo e 5 con i missili.
L’ingrandimento delle capacità di difesa aerea è sicuramente benvenuto, ma sorge una perplessità: il rischio è che, per tappare un buco trentennale, molti Paesi preferiscano comprare “dallo scaffale” sistemi combat proven non europei, come i Patriot o gli israeliani della serie Arrow. L’iniziativa ESSI (European Sky Shield Initative), a cui partecipa la maggior parte dei Paesi della NATO e dell’UE, vede infatti la presenza di soli due sistemi made in Europe (guarda caso tedeschi) su sei (comprensivi di radar). Il grande assente è infatti il sistema SAMP/T che è in servizio in Francia e in Italia e che ha dato buona prova di sé proprio in Ucraina. Ancora una volta quindi il rischio è che si cada in facili protezionismi nazionali che sfociano in acquisti extra UE, quando sarebbe d’uopo che la maggior parte dei fondi stanziati per la Difesa in Europa restino in Europa, con conseguente beneficio per le industrie del Vecchio Continente e relative filiere annesse.
Di Paolo Mauri. (Inside Over)