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Perché adesso si parla di «Pearl Harbor russa»

(Roma, 02 giugno 2025). Nella giornata di domenica, una serie di attacchi hanno colpito in profondità il territorio russo. In un primo momento, si è pensato all’uso da parte ucraina dei missili a lunga gittata. Del resto, da Berlino soprattutto erano arrivate nei giorni precedenti indicazioni sulla fine dei paletti imposti a Kiev per l’impiego in profondità degli ordigni più importanti girati dagli alleati. Tuttavia, l’azione ucraina è stata condotta con droni introdotti clandestinamente all’interno del territorio russo. L’azione ha fatto parlare, anche e soprattutto tra i vari canali Telegram vicini al Cremlino, di una “Pearl Harbor russa”. E i motivi riguardano l’entità dei danni subiti, così come l’effetto sorpresa e la possibile reazione da parte di Mosca.

I danni subiti dalle forze russe

L’operazione “ragnatela”, così com’è stata ribattezzata dai dirigenti militari ucraini, ha richiesto almeno 18 mesi di preparazione. A rivelarlo sono state le stesse forze di Kiev, le quali hanno sottolineato che la delicatezza dell’intervento è stata tale soprattutto per l’impiego di personale operante segretamente in territorio russo. L’obiettivo è stato ben preciso: colpire basi militari dove l’aeronautica di Mosca tiene i propri aerei bombardieri strategici. L’Ucraina era ben consapevole del fatto che, una volta colpiti questi avamposti, avrebbe causato danni nell’ordine di alcuni miliardi di Dollari ai russi. Ma, soprattutto, avrebbe determinato un parziale ridimensionamento della forza aerea russa con la speranza di veder diminuire le incursioni di Mosca all’interno del proprio spazio aereo.

Per bocca del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, sarebbero almeno 40 gli aerei distrutti. Una cifra che, per ovvi motivi, va presa con le pinze. Nel bel mezzo di un conflitto, ogni parte in causa ha tutto l’interesse ad arrotondare cifre a proprio favore. Vale per Kiev, così come per Mosca. E infatti dal Cremlino sono arrivati messaggi volti a minimizzare l’accaduto, anche se sono state ammesse alcune perdite importanti. Al momento, ci si può affidare all’analisi dei video circolati sui social in cui vengono materialmente mostrati i velivoli andati in fiamme. Così come, si può fare affidamento alle immagini satellitari diffuse sulle varie piattaforme Osint. A distanza di più di 24 ore dal raid ucraino, appare quindi certa la distruzione di otto Tu-95, quattro Tu-22M3, un An-12. Numeri che corrisponderebbero a circa l’8% dell’intera flotta aerea strategica russa. Non il 34% ufficialmente dichiarato da Kiev, ma si tratta ugualmente di una percentuale alquanto significativa, specialmente perché potrebbe essere stimata per difetto.

L’effetto sorpresa

Come a Pearl Harbor per gli Usa nel 1941, l’attacco ucraino di domenica per i russi ha rappresentato una sorpresa. Specialmente perché il territorio russo è stato colpito in profondità e ben oltre anche la catena degli Urali. Tra le regioni nel mirino dei droni ucraini, si segnalano quelle di Irkutsk, nella Siberia centrale, di Amur, nell’estremo oriente russo e non lontano dal confine con la Cina. Incursioni sono state registrate anche nelle aree di Ivanovo e Ryazan, non lontano da Mosca. L’azione ucraina ha poi convolto la regione di Murmansk, anticamera dell’artico russo e a pochi passi dal confine con la Finlandia.

L’effetto sorpresa non è stato dovuto soltanto dall’entità dell’attacco, ma anche dalle sue modalità. I servizi segreti ucraini sono infatti riusciti a introdurre, senza essere mai scoperti nell’arco dei 18 mesi di preparazione dell’azione, una grande quantità di droni all’interno della Russia. Non solo, ma Kiev ha anche mostrato veri e propri hub in territorio russo dove i velivoli senza pilota sono stati nascosti per svariato tempo. L’operazione è stata poi finalizzata introducendo i droni all’interno di apparentemente anonimi e innocui camion, circostanza che ha reso ancora più difficile l’identificazione del pericolo. Una volta arrivati in prossimità delle basi da colpire, i velivoli sono stati azionati da remoto e le forze di sicurezza russe non hanno potuto fare molto per proteggere le basi. Mosca, in poche parole, si è scoperta così più vulnerabile.

La possibile reazione

Chiunque subisce una Pearl Harbor è in qualche modo chiamato a reagire. Non è quindi un caso se la definizione attribuita all’attacco ucraino di domenica sia partita dagli stessi canali Telegram filorussi. Una parte non indifferente dell’apparato militare vicino a Mosca ha subito invocato una reazione decisa da parte del Cremlino. Il termine “nucleare tattico” è apparso in molte chat e in molte pagine di blogger militari.

C’è però una differenza significativa con la Pearl Harbor originale: nel 1941 un Paese belligerante, il Giappone, ha colpito un Paese fino a quel momento non del tutto belligerante, gli Usa. In questo caso si tratta di un atto scaturito nel contesto di un conflitto tra le due parti già avviato da tre anni. Dunque, non è possibile escludere nessuno dei possibili effetti potenzialmente generabili da un attacco del genere: la reazione da parte russa, così come, al contrario, un’accelerazione sul fronte delle trattative diplomatiche. Ma considerando l’andamento dei colloqui tra russi e ucraini in corso a Istanbul, non è da escludere una terza opzione: la conservazione dell’attuale status quo, in attesa delle valutazioni del Cremlino. Ad ogni modo, l’attacco ucraino di domenica non mancherà di avere conseguenze di medio e lungo periodo nel conflitto. La portata di tali conseguenze sarà verificabile solo fra alcune settimane.

Di Mauro Indelicato. (Inside Over)

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