(Roma, 27 maggio 2025). Festeggiando l’undicesimo anniversario dell’operazione con cui si è creato un ruolo in Libia, Khalifa Haftar ospita il viceministro russo che si è occupato di dare ordine e disciplina all’ex Wagner (ora Afrika Corps) e mostra droni cinesi tra le linee della milizia anti-occidentale che comanda
Il capo miliziano della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha festeggiato ieri, lunedì 26 maggio, con una parata militare, l’undicesimo anniversario dell’operazione “Karama”. È la mossa con cui nel maggio 2014 iniziò il suo percorso politico-militare, passato per un fallito golpe (durato appena qualche ora) e per una campagna anti-terrorismo (contro le formazioni qaediste e per quanto ha potuto contro lo Stato islamico), fino ad arrivare a dimostrare la sua volontà profonda, conquistare il Paese e intestarselo come nuovo rais (operazione anche questa fallita quando la Turchia intervenne a frenare l’assalto al governo onusiano di Tripoli, lanciato nella primavera del 2019). A distanza di oltre un decennio, Haftar resta aggrappato a quella sua volontà strategica di ridare “dignità” (questo significa “karama” in arabo) alla Libia. Una dignità che dovrebbe esprimersi nella sostituzione del sistema di potere tripolino, dove il governo del premier promosso dall’Onu, Abdelhamid Dabaiba, è sempre più dipendente dalle milizie. Una sostituzione che dovrebbe portare al potere (unificato? Totale?) Haftar stesso e/o il suo sistema clanico, con la milizia da lui costruita – la Libyan National Army, nome ambizioso che si confonde con un’istituzione nazionale – centro del nuovo corso, com’è già da tempo nell’Est libico, dove il governo parallelo opera sotto la legge delle armi della famiglia Haftar.
Se questa possibilità appare un’ipotesi non adattabile alla ricerca di sviluppo del Paese nordafricano, sebbene potrebbe essere una forma di apparente stabilizzazione (simile all’epoca gheddafiana?), ancora meno diventa potabile se si considera il contorno di Haftar. Seduto sul palco d’onore ad ammirare la parata c’era infatti Yunus-bek Yevkurov, ex capo della repubblica dell’Inguscezia e adesso viceministro della Difesa russa, cadetto d’epoca sovietica, tra i parà della 98ª Divisone aviotrasportata che occupò Pristina, scampato a un’autobomba nel 2009 e ora a capo dell’Afrika Corps. Di più: Yevkurov è colui che ha pensato e creato, e successivamente potenziato, questa organizzazione militare russa che opera in Africa e che in sostanza sostituisce i contractor privati del Gruppo Wagner. Semplificando, il viceministro è in parte anche il successore di Yevgeny Prigozhin, il fondatore della Wagner, un tempo asset cruciale del Cremlino, fino alla ribellione, quando con un’insubordinazione spettacolare nel giugno 2023 mise Vladimir Putin sotto l’imbarazzo pubblico del golpe — probabile ragione dietro all’incidente aereo che gli costò la vita due mesi dopo, quando le acque del colpo di stato si erano fermate, come d’altronde le pale dell’elicottero su cui viaggiava con i suoi sodali.
Yevkurov ha ricevuto un compito da Putin: riordinare le forze e le attività grey zone russe, con l’obiettivo di evitare situazioni plateali e rischiose. E quel riassetto passa molto dal ruolo della Libia. Formiche.net segue da sempre certe dinamiche, iniziate ufficialmente quando Haftar firmò i primi accordi di cooperazione con i russi (nel 2017) e ora giunte a una fase nuova. La Libia è il centro logistico delle attività russe in Africa, dalle basi aeree e navali della Cirenaica passano rifornimenti e ordini per le varie attività nel Nordafrica, nel Sahel, lungo il corridoio del Mar Rosso e ancora più a sud. Una strategia che coinvolge Mali, Burkina Faso, Niger, Repubblica Centrafricana, Sudan: armi russe, combattenti e interessi locali, comando e visione strategica indicato da Mosca. La Libia è cruciale per Mosca, e la famiglia Haftar — con i figli Saddam e Khaled che stanno già curando gli interessi del clan — lo è ancora di più. Dai loro accordi dipende buona parte della presenza africana della Russia, oltre che il ruolo specifico libico è utile per fare leva su una serie di dossier che vanno dall’immigrazione in Europa (ormai elemento di guerra ibrida contro i Paesi della fascia meridionale del Vecchio Continente) al petrolio (la Libia potrebbe essere il primo produttore africano, ma spesso viene usato anche per interessi mossi anche dai russi), fino al gioco di equilibri con i player locali.
“Non si tratta di una minaccia immaginaria: è un rafforzamento militare a meno di 350 km da Lampedusa”, denuncia l’analista libico Ahmed Zaher parlando con Formiche.net: “Uno scenario in cui le basi russe potrebbero arrivare a infrastrutture vitali come Mellitah, attraverso cui passano i collegamenti energetici che riforniscono l’Italia. E se l’Afrika Corps arrivasse lì, le forniture energetiche italiane diventerebbero una materia di negoziazione con il Cremlino”. Contemporaneamente, le forze russe controllano i principali corridoi delle migrazioni provenienti dal cuore dell’Africa, che attraversano paesi come Niger e Burkina Faso fino ai rubinetti libici. “Questo controllo significa che Mosca non gestisce solo la scena militare ed economica, ma anche il flusso migratorio, una sfida enorme per l’Europa, e in particolare per l’Italia. I corridoi, un tempo amministrati localmente o da attori europei, sono ora sotto l’influenza diretta russa”, osserva ancora Zaher.
Chi controlla realmente il territorio? Chi organizza le sfilate militari? Chi detiene la catena di comando? Non Tripoli né Tobruk, ma Mosca? “Le immagini della sfilata militare di Bengasi ricordano le grandi manifestazioni di forza nella storia recente, dove armi e organizzazione sono state utilizzate per inviare messaggi politici chiari, mentre il silenzio complice delle potenze europee riflette una preoccupazione profonda per questi sviluppi. Allora come oggi, le potenze minimizzano i segnali che indicano che il tempo sta scadendo”. In questa che per l’analista libico è una “questione di sicurezza nazionale” europea, in primis per l’Italia, emerge anche un’altra preoccupazione. La parata di Bengasi ha offerto la conferma di un elemento più volte citato, ma per ora parzialmente oscuro: in Libia ci sono armi cinesi. La Cina collabora con la Russia fornendo assetti militari? Pechino è presente direttamente con le proprie armi e unità irregolari? Oppure, quelle armi sono state comprate da attori terzi che poi le hanno spedite agli haftariani in cambio di una tutela dei loro interessi? E chi, semmai ?
I militari dei Haftar hanno esposto una serie di armi e equipaggiamenti moderni, tra cui droni di fabbricazione cinese, durante la parata militare di Qaminis, la città/fortezza vicino a Bengasi dove si è svolto lo show. I velivoli senza pilota (UAV) notati sono gli Wing Loong II e i CH-4, utilizzati per missioni di ricognizione e di attacco – i primi erano già stati protagonisti di attacchi contro le forze di Tripoli nell’assalto alla capitale del 2019, probabilmente forniti da qualche attore regionale che supportava la posizione di Haftar. Ora c’è anche il cinese Azure Hybid VTOL, un velivolo a propulsione elettrica e benzina che vanta una capacità operativa dalle 7 alle 12 ore e un carico utile di 17 kg: è progettato per operazioni di intelligence, sorveglianza, ricognizione e a lungo raggio, e viene sempre più utilizzato nel teatro operativo del Medio Oriente. Dall’analisi delle immagini, si può notare anche il drone ad ala fissa FXF1464, sempre di fabbricazione cinese, utilizzato per missioni di ricognizione, mappatura e monitoraggio ambientale, con una durata di volo di 60-120 minuti.
Secondo alcuni rumors libici, che potrebbero anche essere indirizzati dalla propaganda anti-Haftar, la Cina intende sostenere la famiglia che controlla al Cirenaica fornendogli assetti (soprattutto aerei) per un valore di 1 miliardo di dollari, tramite una società di facciata. Se così fosse, significherebbe che Pechino, membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sta lavorando per eludere l’embargo Onu sulle armi. Qual è l’obiettivo strategico cinese? Coincide con quello russo? E ancora, Haftar è un interlocutore affidabile, visto il contesto di cui si circonda? L’autoproclamato Feldmaresciallo è da tempo inglobato più o meno direttamente nel dialogo per cercare una stabilizzazione del Paese: il tentativo è di non isolarlo per non renderlo del tutto una pedina di attori che remano per non raggiungere quella stabilità e mantenere la Libia un hotspot di caos in mezzo al Mediterraneo.
Di Emanuele Rossi e Massimiliano Boccolini. (Formiche.net)