(Roma, 01 aprile 2025). Questo articolo è reso liberamente disponibile ai lettori dall’ultimo numero di “InsideWar”, la newsletter che esplora i conflitti nel mondo e i temi di Difesa in modo unico e approfondito, offrendo prospettive e analisi che altri non forniscono. Con un approccio fresco e dettagliato, InsideWar si propone di far luce sulle dinamiche più significative e complesse del panorama internazionale, regalando ai lettori una visione autentica e fuori dagli schemi. Per poter ricevere ogni settimana la newsletter, abbonati a InsideOver.
Dalla Striscia di Gaza al Sud del Libano, passando per la Siria e per lo Yemen: il mosaico mediorientale è tornato al punto di partenza. Il 2025 si era aperto con la flebile speranza legata alle tregue concordate o quelle in via di definizione. Ma adesso, passato il primo trimestre dell’anno, la regione è tornata a essere contrassegnata dai diversi fronti riaperti e dalle nuove gravi crisi militari e politiche capaci di compromettere, ancora una volta, la stabilità.
La guerra riaperta a Gaza
Dopo i primi raid delle scorse settimane, i quali hanno determinato la fine del cessate il fuoco siglato a gennaio e non più rinnovato scaduti i 42 giorni della cosiddetta “fase 1”, da Tel Aviv è arrivato l’ordine di tornare anche alle operazioni via terra. La novità dell’ultimo fine settimana riguarda soprattutto la situazione a Rafah, nel Sud della Striscia. Qui i carri armati israeliani stanno conducendo azioni il cui obiettivo, così come dichiarato dagli stessi funzionari dello Stato ebraico, è quello di prendere possesso dei punti cardine dell’area. Del resto, è proprio lungo il confine con il territorio egiziano che scorre il “corridoio Philadelfi“, striscia di terra rivendicata da Tel Aviv per il contrasto a eventuali azioni di contrabbando con l’altra parte della frontiera.
Ma già da giorni i mezzi israeliani sono tornati all’opera a Gaza City e dunque nel Nord della Striscia. Al momento, nonostante alcune interlocuzioni in corso a Doha, non sembrano esserci i presupposti per una nuova tregua a meno di clamorose novità. Domenica il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è tornato sulla questione sottolineando la volontà di andare avanti fino allo smantellamento del potere di Hamas nella Striscia: “Siamo disponibili – ha dichiarato – a lasciare andare via tutti i leader del movimento. E anche a favorire le migrazioni volontarie”, con accenno su quest’ultimo fronte al piano del presidente Usa Donald Trump. La novità degli ultimi giorni è stata anche rappresentata dalle proteste di parte della popolazione della Striscia contro Hamas. Manifestazioni quasi inedite e durate almeno tre giorni, in cui è stato chiesto al movimento di farsi da parte.
Il Sud del Libano (e Beirut) di nuovo nel mirino
Contestualmente, anche l’area meridionale del Paese dei cedri è tornata a essere un vero e proprio teatro di guerra. Per il momento, non si stanno registrando nuove azioni di terra, ma i raid di Tel Aviv hanno colpito a Sud del Litani, così come anche a Beirut. Israele ha accusato il movimento sciita libanese Hezbollah di non essersi ritirato, come da accordi, dalla parte più meridionale del Libano. Dal canto loro, i miliziani hanno puntato il dito contro Netanyahu, reo di cercare pretesti per un nuovo conflitto. Il confronto, seppur non diretto per adesso, appare inevitabile: i funzionari della Difesa israeliana sono dell’idea che Hezbollah è tornata già a rinforzarsi e a sostituire le figure apicali uccise lo scorso anno. A differenza che a Gaza tuttavia, a Beirut da qualche settimana esistono istituzioni statali nuovamente funzionanti e con al timone persone elette dal Parlamento. Forse è solo grazie a quest’ultimo elemento che in Libano c’è una, seppur tenue, speranza di non assistere a nuove escalation.
Il caso siriano e il rischio di uno scontro tra Tel Aviv e Ankara
C’è poi un terzo fronte sottovalutato e ritenuto, erroneamente, quasi del tutto chiuso. Il riferimento è alla Siria dove, dopo le lotte interne dovute alla reazione di cellule legate al passato regime di Assad, il Governo guidato dall’islamista Al Jolani sembra aver chiuso i conti con gli avversari. A dispetto delle apparenze, il caso siriano è ancora aperto. Lo dimostrano i raid israeliani del 22 marzo sulla base T4 di Palmira, una delle più importanti del Paese. Si tratta della stessa base che, secondo diverse fonti israeliane e panarabe, a breve dovrebbe ospitare un avamposto turco. Il bombardamento della struttura quindi, è da ricollegare ai timori di Israele di un eccessivo peso di Ankara in una Siria riunificata e guidata dall’ex opposizione ad Assad. Non è un caso se l’analista turca Asli Aydintasbas ha parlato, per la prima volta pubblicamente, nei giorni scorsi dell’inevitabilità di uno scontro futuro per procura tra Israele e Turchia all’interno del territorio siriano.
La questione degli Houthi
Da non sottovalutare ovviamente anche il fronte yemenita. Le più importanti minacce per Israele nel mese di marzo sono arrivate proprio dallo Yemen, con i miliziani sciiti degli Houthi capaci di lanciare missili verso Tel Aviv e Gerusalemme. Per adesso ad agire contro i combattenti filo iraniani sono soprattutto gli Stati Uniti, con il presidente Donald Trump che ha ordinato raid a tappeto contro le loro postazioni. Azioni che non hanno sortito nell’immediato grandi effetti, considerando gli allarmi aerei nel centro di Israele risuonati negli ultimi giorni.
Di Mauro Indelicato. (Inside Over)