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La Siria alla vigilia del ritiro USA

(Roma, 08 febbraio 2025). Via dalla Siria, ancora una volta. Esattamente come proclamato nel 2019, nel corso del suo primo mandato, Donald Trump ha espresso la seria intenzione di ritirare le truppe Usa dal Paese arabo. Sei anni fa, il piano non è andato in porto per via di divergenze con il Pentagono. Oggi però il tycoon vorrebbe riprovarci e, stando alle dichiarazioni di due funzionari della Difesa Usa rilasciate alla Nbc, alcuni piani per il rientro a casa dei soldati sono in fase di elaborazione.

Non mancano tuttavia resistenze sempre all’interno del Pentagono, con altri funzionari che alla stampa statunitense hanno rivelato le proprie preoccupazioni per un eventuale ritiro. Il dietrofront del soldati di Washington infatti, avverrebbe in una fase ancora molto instabile e in cui la Siria non ha ancora definito il proprio futuro.

La situazione nell’Est della Siria

A preoccupare maggiormente è proprio l’area dove da più di un decennio sono stanziate le truppe statunitensi. Si tratta della regione a Est dell’Eufrate, coincidente con le province di Deir Ezzor e Al Hasakah. Qui hanno sede, tra le altre cose, diversi giacimenti di petrolio ma è soprattutto la vicinanza con il confine iracheno ad aver sempre rappresentato il principale interesse di Washington nella regione. Mettere gli scarponi da queste parti, vuol dire interrompere quello che un tempo era il corridoio con l’Iran usato da Teheran per portare armi e mezzi verso Damasco e verso Beirut.

I soldati Usa a Est dell’Eufrate hanno sempre dato manforte alle forze Sdf, sigla che identifica il principale gruppo filocurdo che di fatto controlla l’area già dai primi anni della guerra civile. Una presenza, quella curda, non certo digerita dalla vicina Turchia di Erdogan. Non è un caso se a fine novembre, non appena è iniziata l’offensiva decisiva di Hayat Tahrir Al Sham (HTS) contro le truppe siriane dell’ex presidente Assad, i miliziani filo-Ankara del Syrian National Army (Sna) hanno concentrato le proprie azioni verso Est.

Ed è qui che scorre l’unico vero fronte al momento aperto in Siria. La situazione è poco chiara: la città strategica di Manbij, ad esempio, è passata più volte di mano e, proprio pochi giorni fa, un’autobomba nel centro cittadino ha ucciso 15 persone. Gli scontri tra Sna e Sdf preoccupano e non poco diversi funzionari statunitensi: le violenze infatti non solo potrebbero rappresentare un focolaio pronto a incendiare l’ancora arido terreno istituzionale siriano, ma rischiano di distrarre forze filocurde dai compiti di sorveglianza dei campi di prigionia dove sono rinchiusi i miliziani dell’Isis. Un vero e proprio esercito di novemila combattenti, pronti a evadere e a cominciare nuovamente le ostilità anche fuori dalla Siria.

Il primo tour diplomatico di Ahmed Al Sharaa

Proprio per via della situazione nell’est, non sono pochi i funzionari della Difesa che consigliano maggior prudenza a Trump prima di dare il via libera a un eventuale ritiro. In poche parole, una parte del Pentagono vuole che il presidente non prenda decisioni sulla base delle immagini che arrivano da Damasco. Qui il contesto appare più stabile: Mohammed Al Joulani oramai si fa chiamare con il suo vero nome di Ahmed Al Sharaa ed è stato ufficialmente nominato presidente. In un discorso tenuto nei giorni scorsi nel palazzo presidenziale un tempo dimora degli Assad, Al Chara ha dichiarato sciolte le milizie, compresa la sua Hts, e ha annunciato la formazione di un nuovo esercito siriano.

Frammenti di apparente normalità che hanno accompagnato anche il neo presidente siriano nei suoi primi due viaggi all’estero. Il primo ha avuto luogo in Arabia Saudita, il secondo invece alla corte di Erdogan ad Ankara. Il quadro però appare tutt’altro che definito e definitivo: la Siria, alla vigilia del paventato ritiro Usa, ribolle ed è ancora tanto provata quanto scossa da tutti i più recenti eventi.

Di Mauro Indelicato. (Inside Over)

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