(Roma, 27 dicembre 2024). Nella giornata di giovedì 26 dicembre nuovi bombardamenti israeliani hanno preso di mira le infrastrutture dello Yemen, a partire dall’aeroporto della capitale Sana’a, nel territorio controllato dai ribelli Houthi. Lo scalo della capitale è stato colpito assieme alle centrali elettriche di Hezyaz e Ras Kanatib e a porti di Hodeida, Salif e Ras Kanatib, e ha fatto particolarmente scalpore il fatto che i raid di Tel Aviv abbiano sfiorato il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, che si trovava in Yemen in una missione di monitoraggio.
Gli Houthi arroccati in Yemen sono un osso duro
Benjamin Netanyahu ha palesato l’obiettivo di Israele nella risposta ai missili lanciati dai ribelli yemeniti su Tel Aviv (5 negli ultimi 10 giorni) con toni enfatici ma chiari, indicando nella volontà di colpire i rivali dello Stato Ebraico legati all’Iran la strategia maestra delle sue forze armate: “Anche gli Houthi impareranno ciò che Hamas, Hezbollah, il regime di Assad e altri hanno imparato, e anche se ci vorrà del tempo, questa lezione sarà compresa in tutto il Medio Oriente”, ha affermato il primo ministro israeliano.
Netanyahu fa riferimento ai duri colpi inflitti a Hezbollah e Hamas con la sostanziale eliminazione della loro leadership e alla caduta del governo siriano di fronte all’offensiva delle milizie di opposizione, che a Tel Aviv si collega al calo del sostegno dell’Iran contenuto militarmente dagli attacchi israeliani. E in riferimento agli Houthi l’obiettivo è il medesimo: se già contro Hezbollah o coi raid in Siria, e in misura parziale nella guerra di Gaza, l’enfasi di Israele era contro il nemico vicino con l’obiettivo di ridimensionare il nemico lontano, cioè Teheran, nei raid con gli Houthi, distanti quasi 2mila km da Tel Aviv, è la volontà di stroncare la proiezione della Repubblica Islamica a guidare gli assalti dell’aviazione con la Stella di David.
Stanare gli Houthi dalle loro roccaforti montane è un’impresa difficile. Lo stanno capendo da quasi un anno gli Usa, il Regno Unito e gli alleati, che dal lancio dell’operazione Prosperity Guardian contro le milizie che avevano imposto il blocco del Mar Rosso nel gennaio 2024 hanno martellato gli sciiti yemeniti utilizzando assetti molto moderni, tra cui i B-2 Spirit americani, senza però eliminarne le capacità combattive.
Israele da luglio in avanti si è unita agli attacchi e ora, sfruttando il cessate il fuoco in Libano e il calo di intensità degli scontri in Palestina, vuole concentrarsi sugli Houthi. Il tutto con un corollario chiaro: i bersagli colpiti mostrano la volontà di interdire la proiezione iraniana in Yemen e mostrare a partner e alleati potenziali come il contenimento di Teheran passi per Sana’a. Magari sperando che l’amministrazione Usa entrante di Donald Trump amplifichi i bombardamenti a stelle e strisce per tagliare un altro tentacolo alla “piovra del terrore”, nome affibbiato da Netanyahu a quello che in Iran è chiamato “Asse della Resistenza”.
Obiettivi e strategie di Israele
Vero è che Netanyahu fa paragoni con scenari in cui Israele ha ottenuto risultati tattici, ma non strategici. In Libano Hezbollah è stata sicuramente indebolita, ma due mesi di guerra via terra non hanno portato l’Israel Defense Force a demolirne in forma completa l’apparato militare, e si è dovuti arrivare a un cessate il fuoco peraltro violato sistematicamente da Tel Aviv; in Palestina, la capacità combattiva di Hamas non è mai parsa il principale obiettivo militare in una guerra condotta a colpi di bombardamenti su popolazioni civili e inermi; in Siria, la caduta di Bashar al-Assad ha portato all’ampliamento della proiezione della Turchia e pone in posizione precaria i curdi, principali alleati di Israele. Certamente in questi processi il principale successo di Tel Aviv sta nell’arretramento dell’Iran, che si vuole conseguire anche in Yemen.
A cosa punta Israele ? Essenzialmente, a realizzare tre priorità. In primo luogo, a mostrare all’Iran la sua capacità di colpire in profondità con la sua aviazione in cui caccia di quarta generazione (F-16), meno avanzati tecnologicamente ma a più ampio raggio, e aerei di quinta generazione (F-35) cooperano. Se Israele può raggiungere il Sud della Penisola arabica, è il messaggio, può colpire anche in Iran, Paese più vicino e per il quale la via è stata aperta demolendo nei giorni della caduta di Assad le difese aeree del fu regime.
In secondo luogo, Netanyahu intende fare dello Yemen il laboratorio per una nuova coalizione anti-iraniana: il fatto che Teheran e l’Arabia Saudita dialoghino per garantire un cessate il fuoco tra Houthi e governo centrale sostenuto da Riad che prosegue dal 2023 all’ombra della pacificazione tra i due Paesi dopo anni di guerra per procura va contro le volontà di Tel Aviv, che spera che con il Trump 2.0 possa rinascere quel triangolo esteso a Riad per contenere la Repubblica Islamica in nome dei rinnovati Accordi di Abramo.
Per Netanyahu la guerra è un fine in sé ?
Terzo punto, la mossa contribuisce ad alimentare il clima di guerra infinita su cui l’attuale governo nazionalista israeliano costruisce la sua narrativa politica e la sua retorica da fortezza assediata. Netanyahu e la sua coalizione di partiti di destra hanno, dal 7 ottobre 2023, svolto operazioni in sette aree diverse del Medio Oriente: Striscia di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Iran e Yemen. Ogni volta che un fronte si raffredda, come nel caso libanese, Tel Aviv ne apre uno nuovo.
Il conflitto sta diventando un fattore di amalgamazione per far remare compatta la società, consentire a Israele di operare con cinico pragmatismo contro i suoi rivali e, en passant, blindare la sicurezza del potere di Netanyahu in una fase di processi interni e internazionali per accuse che vanno dalla corruzione ai crimini di guerra. Una volta di più, le sorti personali del primo ministro, quelle di Israele e quelle del Medio Oriente sono legate da un filo sottile ma inscindibile. E questo fatto può creare ambiguità strategica e, potenzialmente, errori di calcolo. Facendo pensare a molti, soprattutto in Israele, che la guerra sia un fine in sé, non un mezzo per arrivare a una pace più stabile.
Di Andrea Muratore. (Inside Over)