(Roma, 07 dicembre 2024). I dieci giorni che hanno sconvolto la Siria portano la guerra nei sobborghi della capitale Damasco mentre ormai del regime di Bashar al-Assad sembra non esistere più nulla. E anche il destino del Rais che un tempo si professava trionfante nel conflitto civile del Paese levantino è incerto. Si rincorrono voci incontrollate di una fuga a Latakia, roccaforte degli alauiti, addirittura di una sua partenza per la Russia, o di una sua volontà di difendere la capitale in battaglia. Con che esercito, verrebbe da dire?
Nelle ultime ore si è mosso anche il fronte meridionale, a lungo sopito. Se nella prima decade a sostenere l’avanzata erano stati i jihadisti di Hay’at Tahrir al-Sham e i filo-turchi dell’Esercito Nazionale Siriano (Sna), su Damasco stanno convergendo invece le forze partite da Sud. Qui da anni, nel governatorato di Dara’a al confine con la Giordania, opera una fazione ribelle nota come Fronte Sud, sostenuta dal 2014 al 2017 dagli Stati Uniti, a cui negli ultimi giorni si è aggiunto il neo-costituito Southern Operations Room (Sor) formato da milizie druse, insorte ieri nella città di Suwayda, storica roccaforte del regime.
Cristiani e drusi sconfessano Assad
Nelle terre dei drusi, minoranza i cui adepti seguono una religione abramitica monoteista e che sostiene la reincarnazione, il regime di Assad si faceva portavoce di un presunto ruolo di protettore della libertà di culto e pensiero dalla ferocia islamista. Tale ruolo non sembra essere più riconosciuto: nelle città druse si staccano le effigi del regime e si buttano giù le statue del padre di Bashar, Hafiz al-Assad.
A questo si può aggiungere in parallelo quanto detto da Jacques Mourad, Arcivescovo siro cattolico di Homs all’Agenzia Fides, parlando del possibile arrivo dei jihadisti di Hts nell’antica Emesa: “Mentre attendiamo la Natività di Gesù, sogniamo che davvero possa esserci una nuova nascita anche per la Siria, per il presente e per il futuro. Una Siria che sia rispettata dalla Comunità internazionale, e dove possano migliorare le condizioni di vita. Per ora questo appare un sogno. Ma per noi rimane una attesa molto concreta”. Parole che sono non solo una dimostrazione di apprensione per l’avvenire ma anche una sconfessione del mito del regime di Assad come garante della Siria cristiana.
Si apre la strada alla battaglia di Damasco
La decina di giorni che sta risolvendo una guerra di tredici anni apre la strada alla fine del mito del Rais siriano tra i suoi apologeti. E soprattutto apre la strada alla battaglia di Damasco. E sono proprio drusi e truppe della coalizione meridionale a accerchiare la capitale e a penetrare nei sobborghi di Jaramana , Muadamiyah e Darayya, mentre ovunque scoppiano proteste. Non pervenuto l’Esercito Arabo Siriano, e non si è ancora mossa la Guardia Repubblicana, sua unità d’élite. Il nocciolo duro della resistenza sembra essere concentrato contro Hay’at Tahrir al-Sham a Homs, città dove sono in corso i più feroci combattimenti e vera chiave di volta.
Ormai sembra che la percezione militare parli di un esercito di Assad che ha come principale motivazione non tanto quello di salvare un regime che si sfalda e forse sembra non esistere più nei fatti ma piuttosto porre un argine all’avanzata degli islamisti. Non cedere Homs vorrebbe dire tenere aperta la via della ritirata alle roccaforti alauite sulla costa, dove operano le forze aeree e navali russe, alle forze del regime. E soprattutto impedire al gruppo di Abu Mohammad al-Jolani la presa di Damasco.
La Siria “cantonizzata”
La strada che si sta aprendo è quella di una Siria ridotta a una confederazione tra diverse satrapie di miliziani di diversa estrazione, a cui si aggiunge la corposa enclave del Rojava curdo, che dovranno decidere tempi e modi della riorganizzazione politico-militare del Paese. In questa fase gli esponenti del vecchio regime sembrano desiderosi più di evitare che a prender piede siano le milizie maggiormente radicali che di puntellare una dittatura fondata da Hafez nel 1971 e che dopo tredici anni di guerra civile era un guscio vuoto. In pochi giorni è caduta Aleppo, città martire faticosamente riconquistata nel 2016 dopo una lunga battaglia, a cui si è aggiunta Hama, simbolo del massacro del 1982 compiuto dal regime contro i Fratelli Musulmani, e presto potrebbe arrivare al computo anche Damasco.
La Russia, la Turchia e l’Iran, nel frattempo, hanno negoziato le nuove linee rosse, che in particolare Mosca, significativamente, prova a implementare concentrando gli attacchi della sua forza aerea non contro Hts ma nei confronti dei miliziani pro-Ankara. La sensazione è che la situazione sia sfuggita di mano a tutti. “Mosca e Teheran hanno fornito un supporto notevolmente limitato a Damasco”, nota National Interest. La Russia ha in pieno svolgimento la partita ucraina, mentre al contempo “la capacità di Teheran di difendere il territorio di Assad è notevolmente diminuita a causa degli attacchi aerei israeliani contro il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica-Forza Quds (IRGC-QF), il braccio straniero delle forze di sicurezza d’élite dell’Iran”, che peraltro “ha gradualmente ritirato i suoi ufficiali superiori dalla Siria all’inizio di quest’anno a causa delle minacce israeliane”. E l’esercito di Assad, senza sostegno alleato, è sembrato valere poco.
Ankara, nel frattempo, sperava nel successo dell’offensiva di Aleppo ma non si è resa conto di come questo primo successo abbia aperto uno sfaldamento senza precedenti del regime, tanto che la sua maggior forza alleata, l’Esercito Nazionale Siriano, è stata presa in contropiede: ha perso tempo a combattere un’inutile battaglia per conto della Turchia contro i curdi mentre a Sud le truppe di Abu Mohammad al-Jolani dilagavano verso Homs. Questo a testimonianza di come sia riduttivo ridurre alla logica del “telecomando” straniero ogni manovra che riguardi il pur affollato scenario siriano. La politica deve inseguire una realtà sul campo che dopo quattro anni di sostanziale impasse e un precario stato di tregua è stata stravolta in pochi giorni. A testimonianza di quanto la dittatura di Damasco fosse ormai un guscio vuoto: ma questi dieci giorni sono per il Paese levantino un vero e proprio salto nel buio di cui è difficile preveder le conseguenze.
Di Andrea Muratore. (Inside Over)