(Roma, 12 novembre 2024). L’attacco “contro l’Iran” in Siria serve come richiamo a Teheran sulla gestione dei proxy dell’Asse della Resistenza che spesso si muove in forma autonoma. Ma per gli Usa sempre controllato idealmente dagli ayatollah
Nella notte tra lunedì e martedì, le forze statunitensi hanno condotto nove raid contro obiettivi iraniani in Siria, colpendo postazioni di gruppi affiliati alle Guardie della Rivoluzione Islamica Iraniana (Irgc). L’azione, confermata dal Comando Centrale degli Stati Uniti (CentCom), è stata definita una risposta agli attacchi subiti dal personale americano nella regione nelle ultime 24 ore.
I raid, avvenuti in due località diverse nell’area orientale di Deir Ezzor, mirano a limitare le capacità di pianificazione e attacco delle milizie filo-iraniane contro le forze statunitensi e della Coalizione, tra cui anche unità italiane, presenti nell’area con il compito di contrastare lo Stato islamico prima (dalla proclamazione del giugno 2014 fino alla sconfitta della dimensione statuale nel 2016) ed evitarne una nuova insorgenza adesso (l’ultimo raid contro l’Is risale a non più tardi del 30 ottobre).
Ma le unità americane nella regione hanno anche il compito di controllare a corta distanza le attività delle milizie siriane (e irachene) connesse al cosiddetto “Asse della Resistenza”. Si tratta di gruppi armati dalle Irgc e parte di quel network con cui Teheran ha strutturato la sua presenza regionale. Queste stesse milizie sono responsabili di azioni contro Israele, notevolmente intensificate dopo il mostruoso attacco di Hamas del 10/7, che ha aperto l’attuale stagione di guerra in Medio Oriente. Da quella data sono aumentati anche gli attacchi contro le basi americane nella regione: uno stillicidio continuo usato dall’Iran con l’obiettivo strategico di convincere gli americani a lasciare il Medio Oriente — o, visto che l’obiettivo generale è impossibile, quanto meno le basi avanzate in Siria e quelle più strutturate in Iraq.
“Questi attacchi indeboliranno i gruppi sostenuti dall’Iran”, scrive il Pentagono nel comunicato con cui comunica il raid, mentre il comandante del CentCom, il generale Michael Erik Kurilla, specifica che l’operazione rappresenta un chiaro avvertimento: “Gli attacchi contro forze americane e alleate non saranno tollerati”. C’è anche un sottinteso: gli Usa per ora resteranno.
Sì scrive “per ora” per specificare che non sappiamo cosa avverrà dopo il 20 gennaio, quando Donald Trump tornerà alla Casa Bianca: in generale, in linea con la gran parte delle amministrazioni da quella Obama in poi, Trump non ama questo genere di impegno in Medio Oriente (ascrivibile alle tanto criticate “endless wars”). Ma già nella sua presidenza si era scontrato con il Pentagono quando chiedeva un ritiro rapido e totale, perché i militari gli spiegavano che quello sarebbe stato un modo per darla vinta all’Iran e farsi rapidamente sostituire da attori rivali — come la Russia.
In un quadrante fortemente dipendente dall’ambiente securitario, un’uscita statunitense da tale contesto significherebbe una perdita di influenza non indifferente. L’Iran ne è consapevole, per questo quelle milizie martellano le forze statunitensi, cercando di rendere insostenibile il clima (sia tecnicamente, più difficile viste le capacità americane, che politicamente, più facile perché gli elettori bipartisan non vogliono altri morti americani dal Medio Oriente).
Gli attacchi alle basi statunitensi vanno così avanti da anni, ma da ottobre scorso c’è stato un crescendo fino a gennaio, quando tre americani sono stati uccisi in un attacco alla base Tower 22, una postazione avanzata all’interno del territorio giordano, nei pressi del confine con la Siria. Washington aveva reagito con un bombardamento pesante a febbraio, e da quel momento c’era stata una sorta di quiete, tregua non scritta durata per pochi mesi. Già in agosto, otto militari Usa erano stati feriti in un attacco di droni in Siria, attribuito a una milizia filo-iraniana. La misura era colma, il Pentagono ha agito — anche perché diventa inutile un rafforzamento militare come quello in corso se lo strumento armato resta fermo, è una questione di rappresentazione delle deterrenza.
Poi ci sono coincidenze circostanziali: l’attacco americano avviene mentre Bashar el Assad, il sanguinoso dittatore siriano che ha vinto la guerra civile e sta seguendo un percorso di riabilitazione internazionale (sebbene il suo potere sia puntellato da Russia e Iran, altrimenti avrebbe ancora problemi di instabilità), era a Riad per la riunione straordinaria con cui i Paesi arabo-islamici hanno condannato fortemente Israele e i suoi alleati. È stata la sua prima volta in Arabia Saudita dal 2011, quando iniziò la guerra civile — in cui i Paesi del Golfo hanno sostenuto in vari modi i ribelli, salvo poi accettare la sconfitta e acquietare le relazioni con Assad. Il regime siriano è responsabile di un caos triplo: non è in grado di soddisfare le esigenze della popolazione e facilitata i lealisti abbandonando gli altri; non controlla il territorio e questo produce la possibilità di mantenere vive spurie dell’Is (che sfruttano lo scontento per la loro narrazione); ospita le milizie iraniane e postazioni militari russe sul Mediterraneo orientale.
Nel quadro circostanziale non si può tralasciare che Esmail Qaani, il capo delle Quds Force, l’unità speciale delle Irgc che gestisce le operazioni all’estero e dunque anche l’Asse della Resistenza, era a Doha per incontri, mentre i bombardieri americani attaccavano in Siria. Le milizie spesso si muovono per loro iniziativa, ma gli Stati Uniti e Israele considerano esse come emanazione dell’Iran e individuano gli obiettivi come “appartenenti alle Irgc”.
Di Emanuele Rossi. (Formiche)