(Roma, 06 novembre 2024). Forse il primo a capire che il vento, all’interno degli Stati Uniti, stava per virare è stato Benjamin Netanyahu. Mentre ancora negli Usa la gente era in fila per votare, il premier israeliano ha attuato uno dei più significativi rimpasti del suo governo. La rimozione del ministro della Difesa, Yoav Gallant, e la sua sostituzione con l’uscente ministro degli Esteri Yisrael Katz, non è arrivata in un momento casuale.
Al contrario, alla luce del successo di Donald Trump e della sconfitta della vice presidente uscente Kamala Harris, ha rappresentato il primo segnale lanciato da un medio oriente ben attento, su tutti i vari fronti, nel seguire l’andamento elettorale statunitense.
La filosofia di “Bibi”: “Ora o mai più”
Nonostante alcune accuse rivolte dallo stesso Trump a Netanyahu negli ultimi mesi, i vertici politici di Tel Aviv da tempo scommettevano sul successo di “The Donald”. Del resto, il tycoon da presidente è stato colui che ha spostato l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e, tra le altre cose, ha promosso gli Accordi di Abramo.
Il messaggio di congratulazioni inviato dal premier israeliano al rieletto capo della Casa Bianca, appare piuttosto emblematico in tal senso: “Quello di Trump – ha scritto Netanyahu – è il più importante rientro della storia”. Ad ogni modo, la mossa relativa al licenziamento di Gallant è stata la più importante di queste ore.
Avvertendo il sentore di un passaggio di testimone oltreoceano, Netanyahu ha voluto rompere gli indugi e liberarsi così del ministro che ha rappresentato la più importante voce critica tutta interna al suo governo. Il segnale appare abbastanza chiaro: Netanyahu vuole proseguire con le operazioni belliche avviate nell’ultimo anno e, con Donald Trump alla Casa Bianca, spera in un appoggio ancora più importante.
Anche perché Gallant, tra le altre cose, è stato il gancio ideale per l’uscente Joe Biden nei momenti di maggior distacco tra Washington e Tel Aviv. La sua rimozione, a poche ore dal trionfo di Trump, è possibile leggerla quindi, tra le altre cose, come la volontà, da parte di Netanyahu, di tagliare da subito i legami con l’uscente amministrazione Usa.
In Iran va giù il Riyal
Dall’altra parte della barricata, alcuni commenti sulla vittoria del tycoon newyorkese sono arrivati anche da Hamas. Sami Abu Zuhri, alto esponente del movimento palestinese, ha dichiarato infatti il proprio auspicio affinché “Trump eviti gli errori di Biden” e lavori concretamente per una tregua.
Ma ovviamente l’attenzione principale è rivolta verso l’Iran. Donald Trump, nel corso del suo primo mandato, ha inasprito le sanzioni contro Teheran e non ha mai fatto mistero di vedere nella Repubblica Islamica un elemento di fastidio nella regione.
Anche se ufficialmente la leadership iraniana ha sempre sostenuto una linea prudente, non è un mistero che a Teheran si sia fatto il tifo per Kamala Harris. E questo è testimoniato anche dall’andamento di queste ore del Riyal, la moneta locale, andata giù di parecchi punti rispetto al Dollaro. Segno di un parziale e generale scetticismo del Paese legato al ritorno di Trump a Washington.
Pochi commenti invece dalle petromonarchie, i cui leader hanno mantenuto un atteggiamento di neutralità sulla disputa elettorale Usa già dalle prime settimane di comizi.
Di Mauro Indelicato. (Inside Over)