(Roma, 13 ottobre 2024). Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha duramente attaccato Israele e il primo ministro Benjamin Netanyahu dopo l’inizio delle operazioni di Tel Aviv nel territorio israeliano e l’incursione dell’Israel Defense Force nel territorio siriano di ieri. Azioni che hanno sancito l’ennesima giravolta del Sultano e della politica estera di Ankara, ora alle prese con un palese problema israeliano.
Erdogan da incendiario a pompiere
Erdogan ha spesso duramente contrastato l’asse sciita in Siria ma ora si fa paladino delle forze sotto attacco di Israele: per il capo di Stato turco è “essenziale che Russia, Siria e Iran prendano delle contromisure efficaci contro questa situazione“. Il leader turco ha rincarato poi la dose: “Israele mina l’integrità territoriale siriana ed è la più grande minaccia alla pace nel mondo. Dobbiamo difendere la stabilità della Siria. Dopo Damasco, Israele punterà verso Nord”.
A Erdogan non manca certamente la faccia tosta: per oltre un decennio la Turchia ha lavorato in maniera indefessa per rafforzare la ribellione al regime di Bashar al-Assad e contribuire, di fatto, alla cantonizzazione della Siria sostenendo le forze islamiste attive nel Nord e lanciando nel 2018 l’operazione “Ramoscello d’Ulivo” contro le truppe di Assad e le forze curde per consolidare le posizioni dei suoi alleati. E sempre fino allo scoppio della guerra di Gaza, la Turchia competeva per l’influenza sull’arco che va dal Caucaso all’Iraq con l’Iran, potenza al fianco del governo alawita di Damasco. Una competizione in seno alla quale Erdogan non ha lesinato la collaborazione indiretta con Netanyahu, principalmente tramite il sostegno all’Azerbaijan, pivot anti-iraniano nel Caucaso sostenuto da Ankara e Tel Aviv nella sua guerra contro l’Armenia nel Nagorno-Karabakh nel 2020.
Ora Erdogan fa i conti con la necessità di farsi da incendiario a pompiere. E si accorge, realisticamente, che la priorità per la Turchia è evitare che gli incendi nell’estero vicino che Ankara ha contribuito a appiccare si espandano. Il riavvicinamento alla Siria di Assad è un atto di realismo sdoganato in una fase di maggiore distensione internazionale tra Damasco e il mondo arabo e musulmano della regione; inoltre, mostra tanto la volontà della Turchia di seppellire definitivamente il riavvicinamento con Israele, ritenuto strategicamente meno significativo della preoccupazione per l’arco di crisi che circonda l’estero vicino di Ankara.
L’estero vicino in fiamme della Turchia
A Nord, oltre il Mar Nero, continua a imperversare la guerra russo-ucraina in cui i tentativi, tutt’altro che infondati, di mediazione di Erdogan sono in stand-by; a Est, la Turchia sta provando a ritrovare un modus vivendi con l’Iraq che oggi guarda con apprensione alla proiezione regionale della guerra di Gaza; a Sud, oltre alla Siria, c’è il rischio di un’implosione del Libano e la critica partita di Gaza, importante soprattutto ideologicamente per la Turchia.
Un trittico di crisi che, al contempo, pone Israele e Ankara in rotta di collisione per l’influenza regionale e apre a un effetto moltiplicatore per le altre crisi aperte nello spazio d’influenza della Turchia. La quale, ad esempio, ha molto da perdere, da economia esportatrice, dalla crisi degli attacchi alle navi nel Mar Rosso, che resta pendente e che gli Houthi giustificano in nome del contrasto a Israele. Nel Mar Rosso la Turchia opera per sostenere il governo sudanese nella guerra civile e la Somalia nel suo contrasto all’Etiopia e al Somaliland per cercare una proiezione marittima a Addis Abeba. Il grande gioco di Erdogan prosegue poi con la proiezione energetica verso l’Europa, via Russia e Azerbaijan, e con la ricerca di una posizione di Paese-ponte. Postura, questa, che si può costruire solo se si eviterà di mantenere in fiamme il cortile di casa.
Erdogan molla su un tavolo e rilancia su un altro
L’appello di Erdogan sulla Siria ammette un triplice fallimento: quello del tentativo di intesa cordiale con Netanyahu, ed era cosa nota da tempo; il flop della ricerca di una proiezione sulla Siria in nome della spartizione di fatto del Paese; l’insostenibilità di ogni strategia volta a fare di Ankara, da sola, l’antemurale alla proiezione iraniana nella regione. Apre, però, per la Turchia grandi opportunità: un reset con Damasco e Teheran, un atto di buona volontà verso la Russia, un miglioramento dell’immagine di Ankara nel mondo arabo.
Per Erdogan la coerenza non è un valore, conta solo l’interesse strategico di fare della Turchia un attore centrale a cavallo di Europa, Asia, Medio Oriente. I capovolgimenti di fronte hanno senso solo se si è capace di sostenerli: e se si consolidasse un asse tra Ankara e i suoi ex nemici non si potrà non parlare di un effetto diretto della sciagurata politica di Netanyahu lanciato contro tutti. E capace di saldare contro di sé coalizioni fino a poco tempo fa inimmaginabili.
Di Andrea Muratore. (Inside Over)