(Roma, 31 luglio 2024). Il Libano è l’esempio vivente dell’altro Medio Oriente, quello impossibile, plurale e cosmopolita che le grandi potenze militari non vogliono. L’analisi di Riccardo Cristiano
C’è un mito all’origine del Libano, il mito delle sue montagne. Guardando quelle montagne un gesuita fiammingo, Henry Lammens, si inventò la teoria che fossero state messe lì da Dio per dare riparo alle minoranze perseguitate dall’Islam. Ma quelle montagne stavano lì da prima dell’Islam, offrendo riparo prima dal caldo insopportabile e dall’arsura del deserto, poi ai cristiani seguaci di San Marone che, non aderendo al credo ufficiale fissato nei concilii del tempo, vennero perseguitati dai bizantini, non dai musulmani.
Quelle stesse montagne successivamente diedero riparo agli sciiti, perseguitati dai successori dei bizantini, agli ottomani, e a molti altri. Insomma, quelle montagne sono state proprio l’opposto di quel che pensava padre Lammens, alleato dei francesi, ansiosi di trovare una chiave che giustificasse l’invenzione di uno Stato cristiano: il Libano, da separare dalla Siria musulmana.
Ma la storia riserva sorprese e i cristiani, piuttosto che a un loro ghetto, preferirono dar vita a uno stato multietnico e multiconfessionale, il Libano, che si è organizzato, nonostante i sogni francesi, intorno a una Presidenza della Repubblica assegnata ai maroniti e quella del governo assegnata ai musulmani, o per meglio dire alla loro ricca maggioranza del tempo, cioè i sunniti.
Questo è il patto che ha fondato il Paese e che poi si saprà rivedere estendendolo ai dimenticati, gli sciiti, la minoranza dell’Islam, alla quale sarà assegnata la Presidenza della Camera. Il Paese è emerso subito come libero e affluente, con proprio epicentro il porto di Beirut: i commercianti cristiani costruirono relazioni speciali con quelli europei, quelli musulmani con i loro fratelli siriani. Ma tutto questo non rientrava nel sistema che prevalse a Damasco e al Cairo: capitali militari del centralismo statalista e filo-sovietico che conseguentemente hanno perso la sfida economica: i capitali da entrambi gli epicentri arabi fuggirono verso Beirut, che divenne negli anni Cinquanta la sede di tutte le banche arabe, che presta soldi anche all’India, in lire libanesi: è nato il polmone finanziario d’Oriente, con la quarta compagnia aerea del mondo.
Forte economicamente, il complesso e plurale Libano è stato da subito una sfida per il centralismo statalista arabo, soprattutto per quello siriano, che non ne accettava la sovranità. Lì a Beirut si archiviò lo stantio panarabismo, malato di centralismo, e si pensò la Lega Araba.
Ma allo scoppiare della guerra civile, determinata dall’afflusso di guerriglieri palestinesi che si temette alterassero la delicatissima bilancia demografica, Damasco si incuneò nelle pieghe delle paure libanesi, proteggendo in alcuni casi drammatici e notissimi milizie cristiane. La guerra civile che travolse il Paese dei cedri, come tutti chiamano il Libano, ha fatto riemergere i due Paesi: la montagna, con le sue identità ancestrali, e Beirut, città cosmopolita, ma con la sua cintura della miseria dove lo sviluppo economico non regolato ha attirato tantissimi dalle campagne, soprattutto i più poveri, cioè gli sciiti.
L’anno della svolta drammatica per il Libano è il 1982, quando Israele invase il Libano, occupandone il versante meridionale. È l’atto di nascita di Hezbollah, il partito di Dio costruito dai pasdaran khomeinisti.
Nessuno fa la storia con i “se” ma è di tutta evidenza che senza l’invasione non ci sarebbe stata Hezbollah, creazione khomeinista dallo scopo evidente: impossessarsi della resistenza armata contro Israele. Quello spazio, infatti, nel 1982 era appannaggio del Partito comunista libanese, l’unica formazione politica nella storia araba non confessionale, non settaria, e che quindi rappresentava una resistenza popolare intercomunitaria.
È Hezbollah che lo ha estirpato per formarvi la sua milizia confessionale. Quando nel 1990 gli accordi di pace di Taef misero fine alla guerra civile, Hezbollah ottenne di essere l’unica milizia autorizzata a rimanere in armi, fino alla vittoria contro l’occupante. Uno Stato nello Stato.
Hezbollah è diventata nel corso degli anni la punta di diamante del progetto iraniano: conquistare il Levante con una rete di milizie confessionali che sfruttano l’antica discriminazione degli sciiti per farne la propria avanguardia miliziana. Attraverso l’Iraq e la Siria i pasdaran riempiono di armi Hezbollah, che può colpire Israele senza coinvolgere gli Stati “amici”. Quelle armi si usano solo nel Libano.
Va così fino al 2000, l’anno del ritiro israeliano. È il trionfo di Hezbollah, che si presenta al mondo arabo come la forza che ha saputo garantire il riscatto rispetto al potente nemico. Ma c’è un piccolo inghippo: la “resistenza non può finire”, deve continuare al di là della questione libanese. E così una piccola frazione di Golan siriano, occupato da Israele, le fattorie di Shebaa, viene ceduta una notte dalla Siria al Libano, e Hezbollah trova la giustificazione per dire che la resistenza non è finita. La lotta continua.
Il sistema Hezbollah però è incompatibile con il ripristino del vecchio sistema libanese, con la sua anima plurale che alla sfida militare preferisce quella economica e questo consente alle forze identitarie, soprattutto cristiane, di invocare una strada analoga anche per sé: basta Paese unitario. Facciamo anche noi il nostro cantone, il nostro ghetto cristiano.
La crisi ritorna, veemente, profonda. L’assassinio nel 2005 da parte di miliziani di Hezbollah del più amato premier libanese, il sunnita Hariri, devasta il Paese. Miliardario, Hariri è l’uomo che ha ricostruito Beirut, restituito al Libano il suo spazio comune, unitario. Dopo di lui molti suoi interlocutori cristiani, tutti progressisti, vengono assassinati per le strade di Beirut. È una carneficina finalizzata a impossessarsi di tutto lo Stato.
La guerra siriana sopraggiunge nel 2011 e vede la milizia khomeinista schierarsi con Assad contro i musulmani siriani in rivolta contro il suo governo clanico, tribale. Le armi del riscatto arabo si girano contro gli arabi, contro i confratelli di Siria, con terribili stragi, torture e deportazioni.
È la fine di un altro mito arabo, che crea nuove ferite profonde. La distruzione nel 2020 del porto di Beirut è l’ultimo capitolo di una catastrofe che fa del Libano l’esempio concreto, vivente, dell’altro Medio Oriente, quello impossibile, quello plurale e cosmopolita, che le grandi potenze militari non vogliono, costi quel che costi.
Di Riccardo Cristiano. (Formiche)