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Israele combatte su tutti i fronti ma non sa quanto potrà resistere

(Roma, 21 luglio 2024). Sempre più fronti da controllare e non solo sotto il profilo militare. Il prolungamento del conflitto per Israele vuole dire anche e soprattutto questo: dover dispiegare più forze e compiere maggiori sforzi in sempre più aree e in sempre più regioni.

I raid della notte in Yemen dopo l’attacco degli Houthi via drone a Tel Aviv dei giorni scorsi hanno, con la particolare novità della rivendicazione dell’attacco, mostrato la natura regionale della sfida bellica di Israele. Ma non solo. Di recente, ha fatto scalpore quanto accaduto a Eilat, la città più meridionale del Paese e principale polo turistico balneare: martedì infatti, le autorità locali hanno invitato cittadini e turisti a rimanere a casa o negli alberghi. C’era il forte sospetto di infiltrazioni dal confine egiziano.

L’impressione è che più la guerra va avanti e più la coperta per lo Stato ebraico si restringe. E questo vale anche da un punto di vista prettamente economico e, ancora una volta, un esempio proviene proprio da Eilat: il porto, affacciato sul Mar Rosso e dunque strategico per lo Stato ebraico, ha dichiarato bancarotta. Sempre meno navi lo raggiungono, sempre meno container sono pronti a salpare per alimentare quel commercio vitale per Israele. In poche parole, il Paese potrebbe vedere a breve l’apertura di un nuovo fronte: quello economico.

Confini sempre meno sicuri

La guerra a Gaza, come risaputo, nasce subito dopo i macabri attacchi di Hamas compiuti in territorio israeliano il 7 ottobre 2023. Una reazione forte, voluta soprattutto dal premier Benjamin Netanyahu e sostenuta dalla sua maggioranza. Sull’onda degli attacchi di ottobre, il Paese ha virato verso un’escalation che, in primo luogo, ha ucciso decine di migliaia di civili a Gaza e nelle altre città della Striscia.

L’obiettivo del governo di Netanyahu era quello, almeno a livello ufficiale, di sconfiggere Hamas e restituire la sicurezza in Israele. A distanza di mesi, questo obiettivo appare molto lontano dall’essere concretizzato. Attorno Gaza, i cittadini israeliani convivono ancora con il timore di lanci di razzi sporadicamente effettuati dalla Striscia. Vuol dire quindi che Hamas, seppur ridimensionato, ha ancora la possibilità di attaccare e di trovare luoghi da cui lanciare ordigni verso kibbutz e città israeliane.

Non va meglio lungo il fronte Nord, lì dove Hezbollah da settimane bersaglia obiettivi civili e militari nelle regioni settentrionali dello Stato ebraico. Uno scambio di colpi, quello tra l’Idf e i miliziani sciiti libanesi, sempre più intenso da una parte e dall’altra e che a giugno ha fatto paventare, tra le altre cose, l’inizio di una nuova guerra tra le due parti e dunque l’apertura definitiva di un nuovo fronte.

E che qualcosa non quadra lo si vede dall’episodio di Eilat: il confine egiziano, grazie agli accordi di Camp David del 1979, è in pace da quasi 50 anni ed è forse l’unico a non essere avvertito come pericoloso dagli israeliani. Se anche da lì dovessero giungere minacce, l’Idf sarebbe costretta a impiegare personale militare lungo una frontiera fino a oggi immune dal conflitto, eccezion fatta ovviamente per la zona di Rafah.

Un Paese che mostra cenni di stanchezza

Se la coperta per le forze israeliane è sempre più corta, la vera domanda a questo punto riguarda la possibilità di tenuta nel medio e lungo periodo dello Stato ebraico. E quindi quanto, a livello pratico, la strategia messa in campo da Netanyahu e il prolungamento del conflitto facciano bene al Paese e alla sua sicurezza. Nonostante Tel Aviv rappresenti a oggi la principale potenza militare del Medio Oriente, la realtà parla però pur sempre di una nazione piccola e con dieci milioni di abitanti. Dettagli che testimoniano come Israele non può permettersi uno stato di guerra a tempo indeterminato.

Più andranno avanti i combattimenti e più uomini dovranno essere distribuiti e distratti su più fronti. Questo vuol dire, tra le altre cose, avere la necessità di trattenere quanti più soldati e riservisti possibili. Con il risultato che, tra i dieci milioni di abitanti, viene a mancare la forza lavoro necessaria per tirare avanti l’economia.

Inoltre, la guerra mette a repentaglio commerci e scambi economici avviati da tempo. Il fallimento del porto di Eilat ne è un esempio: Israele appare sempre più stanco e quasi sfibrato dal lungo conflitto. Una circostanza quest’ultima che, nei prossimi mesi, potrebbe dare linfa ai manifestanti anti Netanyahu per chiedere un’inversione di tendenza nella conduzione dell’emergenza.

Di Mauro Indelicato. (Inside Over)

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