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I droni per Haftar arrivano dalla Cina ma passano per Gioia Tauro. E gli USA hanno deciso che…

(Roma, 13 luglio 2024). Primo porto italiano per traffico di merci e ottavo in Europa, lo scalo calabrese di Gioia Tauro si colloca sulla grande rotta mediterranea che da Gibilterra porta a Suez. Uno hub che propone una vasta gamma di servizi e collegamenti con tutte le regioni del mondo, e sul quale pende da tempo immemore l’ombra inquietante della ‘ndrangheta e non solo.

Il 18 giugno scorso, il porto di Gioia Tauro è tornato in cima alla cronaca per via di un nuovo sequestro di armi milionario. Perché nuovo? Solo due anni fa, qui vennero confiscati droni destinati alla Russia di Vladimir Putin. Nel sequestro del mese scorso, invece, è stata chiara subito una cosa: il carico sarebbe partito da Yantian, un distretto portuale di Shenzhen, nella Cina meridionale. La nave interessata al sequestro, il mercantile Msc Arina, come raccontato da Federico Fubini sul Corriere della Sera. Un lungo viaggio intorno al mondo: da Yantian, la nave ha poi fatto scalo a Singapore e quindi circumnavigato il Capo di Buona Speranza per evitare il Mar Rosso e il canale di Suez. Nel Mediterraneo si è fermata sia a Valencia sia a Barcellona. Sulle sue tracce, l’intelligence americana, che solo all’arrivo presso lo scalo calabrese avrebbe deciso di far sequestrare il carico di armi, chiedendo alle autorità italiane di intervenire.

Destinazione finale del carico sarebbe stata Bengasi, quartier generale di Kalifa Haftar e dei suoi accoliti, gruviera dalla quale entrano armi e paramilitari russi. Sulle prime non era stato subito reso noto il tipo di carico sequestrato, tantomeno il tipo di armi: il sospetto è che si trattasse di droni, principi del warfare moderno. La nave, tuttavia, non è stata sequestrata e ha ripreso il mare in direzione Marocco (Tangeri). La compagnia Msc, inoltre, aveva fatto sapere di non aver subìto sequestri di container. Il che non deve sorprendere, considerando che i mercantili della compagnia top vengono spesso utilizzati per traffici di droga, armi, merci contraffatte all’insaputa degli armatori.

Solo una settimana fa, svelato il mistero: si trattava proprio di due droni di costruzione cinese ad uso militare nascosti e smontati nei container diretti a Bengasi. All’interno di sei container, provenienti dalla Cina e destinati in Libia, sono stati individuati diversi componenti per l’assemblaggio di due droni militari cinesi del tipo Chengdu Wing Loong II, ormai in dotazione all’LNA nelle versioni Wing Loong e Wing Loong II.

I container avrebbero dovuto trasportare, secondo i documenti commerciali, componenti per generatori eolici. I velivoli a guida autonoma (UAV), una volta assemblati, hanno un peso di oltre 3 tonnellate per una lunghezza di oltre 10 metri ed una apertura alare di circa 20 metri. Il sequestro fornisce un importante dettaglio sulla geopolitica di questa categoria di droni: se i Wing Loong e Wing Loong II sono stati prodotti in almeno 250 esemplari e sono esportati in almeno dieci nazioni, si è sempre pensato che le milizie di Haftar si rifornissero dagli Emirati, dal momento che Abu Dhabi sostiene il generale, avendo anche appoggiato la campagna per la conquista di Tripoli tra il 2016 e il 2020. E invece no.

La Procura di Palmi, dunque, ha aperto un fascicolo in cui viene contestata, a carico di ignoti, l’ipotesi di reato di traffico internazionale di armi. Con l’aggravante di essere diretto verso la Libia, sottoposta a embargo in base alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu ed ai Regolamenti nazionali e comunitari.

Dettagli che si incrociano con le ipotesi dell’intelligence Usa e degli 007 europei, ipotizzando inoltre che Mosca voglia costruire un porto militare a Tobruk per aumentare la pressione sul Mediterraneo.

Fine giugno, stesso plot. Il 28 giugno scorso, nello scalo calabrese, un nuovo sequestro a firma degli uomini della Guardia di Finanza di Reggio Calabria e dell’Agenzie delle Dogane a bordo della Msc Apolline, gemella della Arina: un carico di armi da guerra nascosto in un porta container. Anche questa volta la nave sarebbe partita da Yantian, avrebbe circumnavigato l’Africa per evitare il rischio Houthi, e poi Valencia e Barcellona. Una volta approdata in Italia, sarebbe arrivata l’indicazione delle autorità statunitensi circa il contenuto dei container. Anche la Apolline è stata poi lasciata andare verso Tangeri.

La ragione per cui Gioia Tauro sia scelta per certi traffici è abbastanza ovvia: si tratta di una rotta intermedia nel bel mezzo del Mediterraneo. Il perché sia nel mirino dell’intelligence Usa, tanto da non sbagliare mai un colpo, lo spiega il suo volume di traffico. Ma anche il dispositivo di sicurezza all’interno del quale lo scalo portuale è inserito dal 2003. Gioia Tauro, infatti, è nel mirino degli Stati Uniti attraverso due speciali operazioni di sicurezza e di intelligence scattate a partire dall’11 settembre 2001: la “Container Security Initiative” (Csi) e “Megaport”.

La prima ha un obiettivo ben preciso: Washington vuole controllare i container navali che viaggiano verso gli Usa, per assicurarsi che non sia possibile attaccare il Paese attraverso un container dal mare, che contenga materiali o armi di distruzione di massa. L’Italia vi è inserita assieme ad altri 58 spot: La Spezia, Genova, Napoli, Gioia Tauro e Livorno. Per la Spagna vi rientrano anche Barcellona e Valencia, il che non spiega perché non far scattare i sequestri in territorio iberico. A preoccupare gli americani, sono soprattutto le aderenze dello scalo con le mafie, tanto da metter su nel 2010 anche “Megaport”, al fine di scannerizzare i container alla ricerca di materiale radioattivo, nucleare e di altri materiali pericolosi coinvolti nella fabbricazione di armi di distruzione di massa.

I sequestri a Gioia Tauro ora pongono l’Italia in una posizione complessa. Agli inizi dello scorso maggio, Giorgia Meloni faceva tappa a Bengasi, incontrando Haftar. “Far progredire il processo politico, preservando l’unità delle istituzioni libiche, e di lavorare per porre fine alla presenza di forze straniere sul suolo libico”: questo il messaggio che la premier portava con sé. Da parte di Haftar, l’Italia è vista come strategico approdo per rifornirsi di armi: approdo che ora vacilla a suon di sequestri e di controlli spasmodici. Da parte italiana, Haftar è l’utile scomodo con il quale è necessario dialogare poiché ha per le mani rotte migratorie e non solo (si pensi alla questione dei pescherecci). Ma al di sopra di Roma c’è Washington, che ha deciso di tagliare le vie d’acqua ai rifornimenti per il Generale: e l’ha fatto assieme all’Italia. Haftar per ora resta a bocca asciutta. E l’appeasement con Roma vacilla…

Di Francesca Salvatore. (Inside Over)

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