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Israele-Gaza : la diplomazia delle intelligence

(Roma, 08 maggio 2024). William Burns, direttore della Cia e già ambasciatore, si trova in Israele per incontrare il direttore del Mossad David Barnea e il premier Benjamin Netanyahu. Per la prima volta dall’inizio della guerra a Gaza il più importante esponente della comunità dell’intelligence a stelle e strisce è nello Stato ebraico. Burns aveva nell’agenda del suo viaggio mediorientale solo l’Egitto e il Qatar, dove è stato nei giorni scorsi, ma dopo il recente naufragio della prospettiva di un cessate il fuoco a Gaza tra Israele e Hamas e l’avanzata dell’Israel Defense Force verso Rafah, culminata nella presa del valico con l’Egitto, è piombato in Israele. Anticipato dalla notizia che gli Usa avevano temporaneamente messo in pausa le consegne di alcuni lotti di armamenti all’Idf.

Burns dal 2021 è l’uomo dei momenti più duri per Joe Biden. Il “supplente” del Dipartimento di Stato e di Tony Blinken nelle ore in cui alla feluca dei diplomatici deve sommarsi la capacità di visione degli uomini d’intelligence. A suo modo, da inizio amministrazione è la figura più di successo del team della Casa Bianca. Spesso suo malgrado. Burns aveva avvertito del collasso dell’Afghanistan di fronte ai Talebani nel 2021 e si è trovato a volare a Kabul a organizzare la ritirata americana nel caldo agosto di quell’anno; la Cia aveva correttamente previsto la possibilità che la Russia invadesse l’Ucraina nel 2022 e Biden ha fatto poco per evitare o, a guerra iniziata, inchiodare sul nascere l’azione di Vladimir Putin. Salvo poi rivolgersi a Burns per puntellare da un lato i servizi di Kiev e dialogare, via Turchia, con quelli russi per discutere delle linee rosse del conflitto. Sul Medio Oriente, da tempo la Cia supporta l’Office of Director of National Intelligence (Odni) nel ridimensionare le minacce di attori come l’Iran alla sicurezza nazionale Usa e avverte sul fatto che a Gaza la stabilità è a rischio per la regione intera. Ma Biden da un lato e l’apparato politico Usa dall’altro sono magnetizzati dall’influenza di Netanyahu e dal timore di perdere il pivot mediorientale contro i rivali di Washington rappresentato da Israele.

Per Burns gli appigli politico-diplomatici ottimali sono nelle alte sfere dell’intelligence dello Stato Ebraico. Un’intelligence terremotata da accuse di scarsa prontezza per i massacri del 7 ottobre e che ha visto scaricata dalla politica buona parte delle responsabilità dell’infiltrazione di Hamas. Ma nel frattempo, iniziata la guerra, l’intelligence di Israele si è rimboccata le maniche. Lavorando alla liberazione degli ostaggi da un lato, aprendo ponti diplomatici e securitari dall’altro: Barnea, capo del Mossad, ha ad esempio a lungo discusso col Qatar per aprire piattaforme diplomatiche. In un contesto liquido e poco regolare, ove spesso mancano le legazioni diplomatiche, l’intelligence offre la piattaforma di confronto ottimale, e soprattutto informale, tra attori aventi accesso a informazioni privilegiate. Che i decisori talvolta by-passano o ignorano completamente. E in quest’ottica l’asse tra Burns e i colleghi israeliani può dare l’ultima chance per presentare a Netanyahu le controindicazioni legate a un’escalation su Rafah e un prosieguo dell’offensiva in forma destabilizzante per la stabilità regionale. Il “pontiere” per eccellenza dell’amministrazione è in campo. E segnala che forse gli Usa hanno scelto di giocarsi l’ultima carta. In asse con i settori dell’apparato di Tel Aviv più distanti dalla logica della guerra per la guerra coltivata dall’amministrazione israeliana di ultradestra.

Di Andrea Muratore. (Inside Over)

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