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La lunga corsa dell’Europa all’economia di guerra

(Roma, 21 marzo 2024). “Dobbiamo essere pronti a difenderci e passare a una modalità di economia di guerra. È giunto il momento di assumerci la responsabilità della nostra sicurezza. Non possiamo più contare sugli altri o essere in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti o altrove”. Così, alla vigilia di uno dei Consigli Europei più caldi degli ultimi anni il presidente dell’autorità suprema dell’Europa a ventisette Charles Michel, coordinatore dell’organo che riunisce i detentori del potere esecutivo dell’Unione.

L’economia dell’Europa che entra nel «pre-guerra»

Le parole del politico belga aprono ai sommi vertici delle istituzioni un discorso sulla mobilitazione bellica delle economie europee. Da intendersi in diversi modi: aumento delle capacità di deterrenza, rilancio delle spese militari, rafforzamento del principio di sicurezza collettiva in campi strategici per l’economia sopra le logiche del profitto, in prospettiva ri-mobilitazione delle società per un’epoca di conflittualità crescente. In altre parole: stiamo passando dal lungo dopo-guerra a una fase pre-guerra, parafrasando non solo le parole di Michel ma anche quanto ha dichiarato il Segretario alla Difesa britannico Grant Shapps il 15 gennaio scorso.

Michel ricordava nel suo editoriale inviato a diversi quotidiani europei come tutto si tenesse: la tutela dell’Europa, l’impegno a sostegno dell’Ucraina, la ricerca di una seconda gamba comunitaria per il campo atlantico: “Dobbiamo rafforzare la nostra capacità – sia per l’Ucraina che per l’Europa – di difendere il mondo democratico. Un’Europa più forte contribuirà anche a rafforzare l’alleanza NATO e a rafforzare la nostra difesa collettiva”. Quattro anni dopo aver, in un primo momento rifiutato gli Eurobond per sostenere l’economia europea proposti da Giuseppe Conte e Pedro Sanchez mentre a inizio pandemia di Covid-19, a marzo 2020, Italia e Spagna venivano travolte dal contagio Michel è arrivato a aprire al finanziamento col debito comune europeo dei programmi per la Difesa: “gli investimenti nella difesa sono costosi ma senza di essi non possiamo aumentare la nostra produzione nel settore della difesa. Dobbiamo facilitare le modalità con cui l’industria può accedere più facilmente ai finanziamenti pubblici e privati. Anche l’emissione di obbligazioni di difesa europee per raccogliere fondi per acquistare materiali o investire nel nostro settore potrebbe essere un mezzo potente per rafforzare la nostra base tecnologica, innovativa e industriale”.

Michel come Macron e Draghi: parola d’ordine, mobilitazione

Le parole di Michel ampliano il concetto di “economia di guerra” europea su cui già negli anni passati molti leader comunitari erano tornati alla fase della mobilitazione pre-conflittuale dei sistemi produttivi nazionali.

“La Francia e l’Unione europea sono entrate in una economia di guerra” per la quale “dovremmo organizzarci per molto tempo”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron nella giornata del 13 giugno 2022 intervenendo a Eurosatory, la più grande mostra internazionale di difesa e sicurezza del territorio. Macron ha allora parlato di “un’economia in cui dovremo andare più veloci, pensare diversamente su ritmi, aumenti di carico, margini. Per poter ricostituire più velocemente ciò che è essenziale per le nostre forze armate, per i nostri alleati, o per chi vogliamo aiutare. Un’economia, in fondo, in cui non si può più vivere al ritmo e con la grammatica anche di un anno fa. Tutto è cambiato”. Di nuovo, due anni dopo il Covid, siamo al nuovo mantra: “niente sarà più come prima“. Un whatever it takes geopolitico che rilanciava la metafora bellica due anni dopo l’editoriale della “guerra al Covid” con cui Mario Draghi è intervenuto sul Financial Times.

Draghi nel 2020, Macron nel 2022, Michel nel 2024: tre contesti diversi, un concetto comune, quello di “mobilitazione” dei sistemi sull’onda dell’emergenza. La vera svolta che l’economia di guerra impone non è tanto nella proprietà di mezzi di produzione, nelle scale degli investimenti o nella creazione di nuovi sistemi ma nel cambio totale delle regole del gioco. L’Europa, del resto, se ne sta accorgendo assieme al resto del blocco atlantico analizzando come, sull’altra parte della barricata, la Russia gestisca la guerra in Ucraina con un sistema pienamente mobilitato per la produzione bellica che consente di sopperire alle deficienze produttive e a restare al passo, con la produzione bellica, delle forniture occidentali a Kiev.

Economia di guerra e guerra economica: facciamo chiarezza

La Russia, in quest’ottica ha sopperito alle sanzioni e alle problematiche imposte dall’assedio finanziario, industriale, commerciale dell’Occidente. Un fatto che nel contesto del mondo nuovo disegnato dalla guerra in Ucraina ci invita a riflettere su un tema:  l’economia di guerra non si sovrappone con la guerra economica se non in minima parte. Laddove la guerra economica è l’utilizzo, sia in un contesto esplicito che in una situazione di pace, della finanza, dell’industria, delle imprese strategiche come volano per mettere sotto pressione un Paese ostile, l’economia di guerra fa riferimento all’allocazione delle risorse e alla gestione degli approvvigionamenti di un sistema impegnato in uno scenario di conflitto.

Per fare un esempio relativo alla Seconda guerra mondiale, economia di guerra era la razionalizzazione produttiva imposta dal governo di Winston Churchill grazie a Lord Beaverbook per ingenerizzare la produzione aeronautica ai tempi della Battaglia d’Inghilterra; guerra economica era la campagna di bombardamenti contro la Germania mirante a colpire la forza lavoro e i settori della componentistica (cuscinetti a sfera in testa) ove il Reich era deficitario. Fu economia di guerra la scelta di Stalin di spostare oltre gli Urali buona parte della capacità industriale sovietica nel 1941 di fronte all’invasione nazista; fu guerra economica quella che portò l’anno successivo l’Armata Rossa a incendiare Majkop e i pozzi del Caucaso per non lasciarli cadere in mano ai tedeschi.

Sul fronte del ritorno dell’economia di guerra in Europa il Covid è stata, per così dire, la prova generale. L’Ucraina la versione amplificata del dramma. Col suo paragone “le armi come i vaccini”, forse, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha involontariamente consolidato questa chiave di lettura.

Parlare di economia di guerra è stato a lungo sinonimo di parlare dello stato di conflittualità di fatto in cui l’Europa si trova, via Occidente, con la Russia e del fatto che esso impone politiche degne di una fase in cui bisognerebbe combattere sul campo una campagna: razionalizzare le forze produttive nei settori in cui si ritiene che l’avversario possa sfruttare le vulnerabilità e, dunque, operare azioni di guerra economica contro il tessuto produttivo nazionale. Ieri erano l’energia, il cyber, le tecnologie critiche, le infrastrutture a essere guardate con attenzione. Oggi si passa alla seconda fase della programmazione dell’economia di guerra: quella della mobilitazione del sistema produttivo funzionale al riarmo strategico.

L’economia di guerra a cui si prepara l’Europa dovrà essere valutata sotto una serie di parametri in cui il confronto andrà fatto con la capacità di tenuta del sistema produttivo europeo, della sicurezza delle fonti di approvvigionamento e delle strategie di gestione del confronto con rivali come la Russia ma anche con lo “stato dell’arte” dettato da alleati quali gli Usa. Ne abbiamo identificati sei.

Mobilitazione e accelerazione

Il primo piano su cui un’economia di guerra va valutata è quella della mobilitazione settoriale di tutte le energie a disposizione.

Per l’Europa, sul campo energetico questa mobilitazione da economia di guerra con la corsa a sostituire il gas russo è divenuta palese. Washington da tempo ha mobilitato la sua base tecnologica per valorizzare la forza della sua industria e della sua produzione nella transizione green, nella sovranità energetica, nelle tecnologie critiche, nei semiconduttori per consolidare decoupling e riduzione della dipendenza dal rivale cinese e ridimensionare il peso della Russia. Quest’ultima, in termini di mobilitazione, è al massimo della capacità nello stadio finale dell’economia di guerra, che dedica la base industriale alla produzione di armamenti.

L’economia di guerra promuove, in prospettiva, anche politiche di accelerazione tecnologica: le discussioni sulla difesa europea parlano chiaro. L’economia di guerra impone il metodo di gestione delle risorse taylorista in virtù della massima efficienza di ogni denaro e ogni lavoratore impegnato. Logico che a essere favorite siano quelle branche che, nella Difesa o in altri settori, offrono i ritorni strategici più certi, mentre settori fragili possono essere lasciati indietro. Del resto, Draghi nella sua “mobilitazione” auspicata nell’economia nel 2020 richiamava la “distruzione creatrice” di Joseph Schumpeter, teorizzata sulla base delle rovine economiche della Grande Guerra. La Nato sul fronte militare ha creato un’agenzia, la Diana, per accelerare e incubare start-up innovative e processi di deep tech funzionali a rafforzare le tecnologie dell’Alleanza Atlantica. La Russia invece sul fronte tecnologico non sta, per ora, in larga parte dei settori facendo proseguire la mobilitazione bellica fianco a fianco con un vero potenziamento tecnologico.

“Keynesismo militare” e governi in campo

I dati sul Pil mostrano però che in Russia è in pieno sdoganamento un vero e proprio esempio di “keynesismo militare“, terzo fattore chiave per un’economia di guerra. Parimenti in Europa e negli Usa l’accelerazione degli investimenti in Difesa, indubbiamente, esiste e la minaccia russa la giustifica. Oltre che per autodifesa, le spese militari tendono a inflazionarsi in un contesto di economia di guerra perché l’emergenza chiama la necessità del riarmo e questo mobilita una grande quantità di fondi pubblici.  Il budget della Difesa di un governo, secondo un’applicazione accelerata dei dettami di John Maynard Keynes stabilizza il ciclo economico espandendo notevolmente la domanda pubblica. Questo vale, nella situazione attuale, anche per energia e settori ad alta intensità tecnologica. In altre parole, l’investimento militare contribuisce a generare anche Pil. E questo può, nel breve periodo, giustificare con la crescita economica la spesa militare.

Un’economia mobilitata impone poi una crescente programmazione governativa. Il Covid è stato per molti Paesi una palestra di ciò che vedremo sempre più negli anni a venire: gli Stati sono tornati in campo col Covid e puntano a farlo anche ora, stabilizzando i mercati più a rischio. Si sospendono in diversi settori le leggi del mercato e torna in voga il “dilemma della sicurezza” proprio delle riflessioni di Adam Smith: un sistema capitalistico deve, in fasi critiche, mettere la sicurezza davanti alla prosperità data dal libero commercio. Pena il rischio di soccombere per le logiche della competizione che impongono di guardare la nazionalità di un attore economico con cui si lavora prima ancora della sua profittabilità come partner. Un precetto che nei settori più mobilitati è evidentemente applicato a viso aperto.

Sono due, però, i fattori critici su cui la capacità europea di portare a livello pre-bellico la sua mobilitazione è tutta da testare. Ovvero quelli che fanno la differenza per rendere strategicamente sostenibile una riconversione economica di questa portata.

L’economia di guerra tra sacrifici e inflazione

Da un lato, c’è la disponibilità al sacrificio, ovvero l’attestazione di un principio: l’economia di guerra costa. Costa in termini di deviazione della produzione e dei redditi dai settori tradizionali e costa soprattutto in termini di rincari di servizi apparentemente garantiti. Ad esempio, con un atteggiamento controintuitivo per la nostra tradizionale visione, e sotto certi punti di vista indubbiamente miope, ad esempio l’Europa ha accettato per due anni di subire danni maggiori rispetto a quelli degli Usa e a vedere potenziare la propria difficoltà economica pur di perseguire l’obiettivo di piegare la Russia con le sanzioni mentre i prezzi energetici sono andati in volo.

E dall’altro abbiamo, dunque, l’inflazione come compagna strutturale di un sistema mobilitato in economia, di fatto, “da guerra”. L’inflazione energetica e quella da avidità, ovvero da extra-profitti (finanziari, farmaceutici e energetici in testa), ha già contribuito a creare dalla pandemia in avanti, tensioni sociali non da poco in Occidente. L’Europa è pronta all’inflazione da mobilitazione bellica? E più in generale, è disposta a una trasformazione tanto radicale? Le classi dirigenti ci scommettono. Ma la capacità di tenuta del sistema è tutto da vedere. E resta, apertissima, la questione chiave: in nome di che visione del mondo ci si sta mobilitando ? Senza chiarezza a questa domanda, l’Europa resterà oggetto, e non soggetto, delle dinamiche internazionali.

Di Andrea Muratore. (Inside Over)

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