(Roma, 08 febbraio 2024). Ismail Haniyeh è il leader politico di Hamas, anche se si guarda bene dal vivere nel disagio della Striscia di Gaza
Ismail Haniyeh è il leader politico di Hamas, anche se si guarda bene dal vivere nel disagio della Striscia di Gaza. È lui che da un lussuoso ufficio di un prestigioso hotel di Doha, in Qatar, Paese in cui vive dal 2019, la mattina del 7 ottobre si prostrò in preghiera per festeggiare l’eccidio compiuto dai suoi uomini. Perché la jihad si guida meglio senza sporcarsi le mani e senza rischi. 62 anni, una lunga carriera di militanza in Hamas, è sposato e padre di 13 figli, ha due fratelli e otto sorelle, tre delle quali sono sposate con beduini israeliani, hanno cittadinanza israeliana e vivono a Be’er Sheva. E nei giorni scorsi, un di loro è stata ricoverata e ha partorito al Centro Medico Soroka a Be’er Sheva, in Israele.
Secondo quanto si è appreso la donna ha dato alla luce un bimbo nato prematuro e le cure mediche ricevute hanno permesso di salvare sia lei che il piccolo. Un alto funzionario del Soroka ha detto che effettivamente la donna fa parte di una famiglia beduina della zona ed era in possesso di una regolare carta d’identità. Già negli anni scorsi è stato accertato che una delle figlie di Haniyeh fu ricoverata d’urgenza e curata in un ospedale israeliano, in quel caso all’Ichilov di Tel Aviv.
È un storia di vita che si intreccia con gli orrori della guerra. In cui la pietà umana e il diritto alle cure, per fortuna, non si interseca con gli orrori compiuti da altri. Le colpe dell’uomo, non ricadono sui fratelli e le sorelle. Anche in tempo di guerra, anche in un momento storico in cui chiunque abbia contatti diretti o indiretti con Hamas sia tenuto quanto più lontano possibile da Israele. E nonostante Haniyeh sia l’uomo che può decidere il destino il destino dei 136 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Dall’ospedale ammettono che «è una situazione molto delicata ma l’equipe medica sa che è suo dovere prendersi cura del piccolo e della madre e sta trattando il caso in modo professionale». E così, osservatori israeliani tengono a sottolineare che si tratta di «una vicenda che riassume tutta la differenza tra l’umanità israeliana e la crudeltà di Hamas».
Del resto in un conflitto in cui la propaganda recita un ruolo chiave, un gesto del genere può avere un peso. E aumentare la pressione interna nei confronti di un leader che opera lontano dai suoi miliziani. In molti in questi mesi lo hanno accusato proprio per questo. Lui in Qatar a fare la bella vita, loro usati come carne da cannone. Un nuovo nato, incolpevole di tutto, può servire a rimarcare una volta l’ipocrisia che governa il male. Di chi muove i fili secondo il più classico degli «armiamoci e partite».
Di Matteo Basile. (Il Giornale)