(Roma, 24.11.2023). Respirano i familiari degli ostaggi israeliani. Respira Hamas, che da un mese e mezzo affronta la potenza di fuoco di Israele. Respira Benjamin Netanyahu, sempre più pressato internamente da chi chiede di salvaguardare le vite dei rapiti e chi, nella comunità internazionale, chiede di mettere fine a una guerra che ha già provocato quasi 15mila morti in un mese e mezzo. Con la tregua nella Striscia respira soprattutto la popolazione di Gaza, portata allo stremo da una campagna di bombardamenti a tappeto senza precedenti nell’enclave palestinese. Il silenzio delle armi va bene un po’ a tutti, ma nessun cessate il fuoco, nessuna pace in vista. Lo ha detto il ministro della Difesa, Yoav Gallant: “Stop alle ostilità per quattro giorni, poi la guerra durerà altri due mesi“.
L’INTESA – Dalle 6 del mattino le bombe dello ‘Stato ebraico’ hanno smesso di piovere dai cieli della Striscia, così come si sono fermati i razzi di Hamas, del Jihad Islamico e di Hezbollah. L’accordo raggiunto tra gli islamisti e Israele ha una durata iniziale di quattro giorni, prorogabile fino a un massimo di dieci se tra le parti saranno trovati nuovi punti d’intesa. In queste 96 ore Hamas rimanderà a casa 50 delle 240 persone prese in ostaggio nell’attacco del 7 ottobre, tutte donne e bambini. Allo stesso tempo, Israele libererà 150 prigionieri palestinesi che si trovano nelle loro carceri, anch’essi donne e minori. Liberazioni che avverranno gradualmente nell’arco di questi quattro giorni.
Non è detto, però, che non possa essere deciso di allungare ulteriormente la pausa umanitaria fino a un massimo di dieci giorni. In quel caso, infatti, è già pronta una lista di altri 50 ostaggi e 150 prigionieri da liberare. Al momento, però, si tratta solo di un’ipotesi, dato che anche questa prima tregua, ritardata formalmente per questioni burocratiche, ha visto Hamas avanzare ulteriori richieste dell’ultimo minuto, stando almeno a quanto riferito da fonti israeliane.
C’è però un’altra conseguenza di fondamentale importanza della pausa umanitaria: attraverso il valico di Rafah, al confine con l’Egitto, potranno passare centinaia di camion trasporteranno nella Striscia aiuti umanitari, beni di prima necessità e carburante per i generatori. Una vera boccata d’ossigeno per una popolazione ormai allo stremo, senza acqua pulita, cibo, luce, 1,7 milioni di sfollati su una popolazione totale di 2,3 milioni di persone e l’incubo di una “epidemia imminente”, come denunciato dalle Nazioni Unite.
I RISCHI – Si tratta però di una tregua estremamente precaria perché, come ribadito da Israele e da Hamas, nasce come un passaggio temporaneo in una guerra che non è ancora finita. E questa sua caratteristica la rende maggiormente soggetta a violazioni. Hamas, il Jihad Islamico, Israele e anche Hezbollah hanno garantito che rispetteranno la pausa, ma basta un episodio per far imbracciare di nuovo le armi. Come quello registrato nella serata di giovedì, quando un bombardamento israeliano ha centrato un ospedale-rifugio dell’Onu a Jabaliya, uccidendo almeno 27 persone. Un attacco contro un obiettivo non militare, pieno di civili, che avrebbe potuto scatenare la reazione delle milizie armate della Striscia.
A CHI SERVE LA TREGUA – Come detto, chi ottiene i maggiori vantaggi da questa pausa umanitaria sono certamente i civili di Gaza e coloro che otterranno la liberazione nell’ambito dello scambio di ostaggi-prigionieri tra le parti. Ma, a diversi livelli, tutte le parti in causa otterranno dei vantaggi da questo stop. Sicuramente li otterrà Hamas, sotto pressione ormai dal 7 ottobre, che ha visto diversi membri di alto rango venire uccisi dai raid e dai blitz israeliani. Con questa pausa il partito armato palestinese avrà una manciata di giorni per riorganizzarsi, anche militarmente, prima di affrontare una nuova fase del conflitto. Inoltre, l’invio massiccio di beni di prima necessità nella Striscia potrebbe ridare ossigeno anche alle truppe islamiste, oltre che rialzare, seppur lievemente, il morale di combattenti e popolazione civile.
Chi invece deve fare di necessità virtù è Benjamin Netanyahu. Israele ha accettato a denti stretti l’accordo su una pausa umanitaria, pressato come era da quella parte di popolazione che chiedeva maggiore attenzione per il destino degli ostaggi, dalla comunità internazionale, comprese le Nazioni Unite, che da settimane denuncia i “crimini di guerra” e la “punizione collettiva” messa in atto a Gaza, e anche da parte del suo principale alleato, gli Stati Uniti, che non ha mai negato l’appoggio anche militare a Tel Aviv, invitandola però sempre più spesso a rispettare il diritto internazionale e a salvaguardare i civili.
A queste pressioni si sostituiscono, comunque, quelle degli alleati di governo, i partiti di estrema destra che invece si sono opposti alla decisione di fermare le ostilità in nome di una guerra senza esclusione di colpi per raggiungere nel più breve tempo possibile l’obiettivo dichiarato del governo: “Sradicare Hamas”.
È proprio il tempo il fattore che più interessa al primo ministro israeliano. Netanyahu sa di essere politicamente morto, almeno in questo momento. Il Paese lo considera il principale responsabile della mattanza del 7 ottobre, le richieste di dimissioni si moltiplicano, mentre anche la fiducia dei partner internazionali sembra ormai scomparsa. La fine del suo governo, data per scontata al termine del conflitto, lo costringerebbe, escludendo una rielezione, ad affrontare i propri guai legali. Per questo il suo obiettivo è quello di allungare il più possibile il conflitto. Uno stato di guerra a medio-lungo periodo gli potrebbe permettere di raggiungere gli obiettivi dichiarati, come ad esempio la cattura o l’uccisione del leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar, e di alleggerire anche il pesante giudizio nei suoi confronti. Anche per questo Gallant ha già annunciato che il conflitto andrà avanti per altri due mesi, mentre l’Esercito ha aggiunto che “prendere il controllo della Striscia è la prima tappa di una lunga guerra“. Una lunga guerra intervallata da pause per liberare gli ostaggi: è questo, forse, il miglior compromesso possibile per Benjamin Netanyahu.
Di Gianni Rosini. (Il Fatto Quotidiano)