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Iran: verso l’anniversario della morte di Mahsa Amini tra arresti arbitrari e morti nelle carceri

(Roma, 02.09.2023). La protesta del velo che cova ancora sotto la cenere e lo spettro di una nuova repressione. Onu: legge su hijab è « Apartheid di genere ». Amnesty chiede indagine sulla morte sospetta di un manifestante « torturato » in carcere

Il nuovo progetto di legge sull’hijab in Iran “potrebbe essere descritto come una forma di ”Apartheid di genere », è quanto ha affermato un gruppo di esperti delle Nazioni Unite che operano a Ginevra, a pochi giorni dal primo anniversario della morte di Mahsa Amini, avvenuto il 16 settembre del 2022 a Teheran, giorno che preoccupa la comunità internazionale a causa della rivolta che cova ancora sotto cenere insieme alla rabbia e al malcontento di buona parte della popolazione soprattutto quella più giovane.

Morta, mentre era in custodia della polizia della morale, dopo essere stata arrestata per aver indossato male il velo obbligatorio islamico, Mahsa in curdo Jina Amini, è stata la miccia che ha acceso una delle rivolte più insidiose e importanti mai avvenute nella Repubblica islamica dell’Iran dalla sua costituzione nel 1979.

Da settembre scorso le autorità guidate dalla Guida suprema Ali Khamenei e dal presidente ultra-conservatore Ebrahim Raisi hanno usato il pugno duro sui manifestanti a mani nude che chiedono riforme strutturali non solo sociali ma anche economiche e ambientali. Almeno 600 le vittime della violenta repressione per mano della Guardia della rivoluzione, pasdaran e basiji e centinaia di migliaia gli arresti: non solo manifestanti, intellettuali, giornalisti, oppositori politici.

Un autunno caldo che ne preannuncia un altro e che ha portato le donne iraniane, soprattutto giovani e giovanissime, a condurre una rivoluzione rifiutando il velo islamico obbligatorio e a farsi vedere per strada sempre meno coperte da quella che percepiscono come una inutile imposizione.

Eppure Teheran si mostra sorda e ha lanciato un nuovo progetto di legge, attualmente all’esame del parlamento iraniano, per imporre una nuova stretta punitiva alle donne e alle ragazze che si ribellano. « Le autorità sembrano governare attraverso una discriminazione sistematica con l’intenzione di reprimere donne e ragazze fino alla sottomissione totale », affermano gli esperti Onu in un comunicato stampa. Inoltre, « le punizioni includono la privazione di una serie di libertà fondamentali e di diritti sociali ed economici, che colpiranno in modo sproporzionato le donne economicamente emarginate ».

Gli esperti indipendenti paventano una « persecuzione di genere » ed esortano le autorità « a riconsiderare » la legislazione sull’hijab, « in conformità con il diritto internazionale sui diritti umani » e a garantire « il pieno godimento dei diritti umani per tutte le donne e le ragazze in Iran ».

Solo ieri la notizia, diffusa dai suoi legali attraverso Bbc in farsi, della morte in carcere di un altro giovane attivista, Javad Rouhi, già condannato alla pena capitale nel settembre scorso dopo aver partecipato alle proteste in nome della 22enne curda morta per il velo. Solo dopo l’agenzia di stampa ufficiale Isna ha riferito che il 31enne Rouhi era stato trasferito dalla prigione all’ospedale Shahid Beheshti di Nowshahr per un « attacco epilettico » ed è morto dopo essere stato trasferito in clinica.

In maggio, la Corte Suprema aveva annullato la condanna alla pena capitale e chiesto che il processo venisse svolto nuovamente. Ma Rouhi non è arrivato vivo al nuovo processo e la sua morte ha indignato i social.

Secondo Amnesty international il giovane è deceduto a seguito di tremende torture, che questi non soffriva di alcuna malattia pregressa e che le confessioni che avevano portato alla sua condanna sono state estorte dopo abusi e torture di vario tipo, tra cui pestaggi, frustate ed elettroshock.

« Lesioni alla cuffia dei rotatori, incontinenza urinaria, complicazioni digestive, problemi di deambulazione e gli è stato negato l’accesso a cure sanitarie adeguate », scrive la Ong, chiedendo che le autorità iraniane vengano perseguite in quanto « ragionevolmente sospettate di responsabilità penale per crimini previsti dal diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani ».

Nel famigerato carcere di Evin è finito nei giorni scorsi un altro rapper Mehdi Yarrahi, il noto cantante pop iraniano, accusato di aver diffuso una canzone contro l’uso obbligatorio del velo. L’arresto avvenuto a pochi giorni dalla pubblicazione di ‘Roosarito’ (« Il tuo velo »), un brano definito dalle autorità « illegale e immorale » in cui Yarrahi invita le donne a togliersi l’hijab e loda le proteste antigovernative esplose lo scorso anno dopo la morte di Amini.

Ma l’autorità giudiziaria non si ferma e continua a emettere ancora mandati di arresto arbitrari come quello arrivato nuovamente a carico della giornalista iraniana Nazila Maroufian, arrestata per non aver indossato il velo in pubblico e per avere « pubblicato sui social media le sue foto » senza hijab. Nelle scorse settimane, il 15 agosto, era stata scarcerata su cauzione e una volta uscita di prigione, coraggiosamente,  aveva pubblicato una foto sui social media che la ritraeva per strada sorridente e senza il velo. Nelle carceri iraniane ci sono almeno una settantina di giornalisti tra cui Niloufar Hamedi e  Elahe Mohammadi, anche loro accusate di aver seguito il caso Amini.

L’agenzia degli attivisti dei diritti umani dell’Iran, Hrana ha riferito che la 23enne reporter originaria di Saqqez, nel Kurdistan iraniano, la stessa città di origine di Mahsa Amini, è stata prelevata con violenza dalla sua abitazione e portata presso il tribunale di Ershad a Teheran. Prima di oggi, Maroufian era già stata arrestata più volte a causa di un’intervista, pubblicata a ottobre scorso, al padre di Mahsa Amini in cui questi ha affermato di non credere alla versione ufficiale sulla causa della morte della figlia ovvero una malattia pregressa legata poi a un infarto. Arrestata a novembre e successivamente rilasciata,  Nazila è tornata in prigione dopo avere ricevuto in gennaio una condanna a due anni per « propaganda contro il sistema » e “diffusione di fake news”.

La verità sulla fine della 22enne curda, divenuta “martire”, è al centro di un processo al tribunale rivoluzionario di Teheran, ma questo non ha impedito l’arrestato « per propaganda contro il sistema » avvenuto a marzo scorso ai danni del suo avvocato Saleh Nikbakht. Un’accusa probabilmente legata alle almeno nove interviste rilasciate dal legale ai media stranieri in relazione alla vicenda della studentessa curda che prima di morire era stata appena ammessa all’Università dopo essersi diplomata nel 2018 in un liceo femminile.

Il legale, ora in libertà provvisoria, noto per aver assistito anche il regista Jafar Panahi e altri noti attivisti politici è apparso nella prima udienza davanti al giudice, respingendo le accuse. Arrestata, mentre era in compagnia di suo fratello Kiaresh, dalle “Pattuglie dell’Orientamento”, la polizia religiosa, il 13 settembre 2022 all’ingresso dell’autostrada Haqqani a Teheran, dove si trovava con la sua famiglia in vacanza, Mahsa Amini venne portata via.

Alla famiglia venne raccontato che sarebbe stata condotta in un centro di detenzione per essere sottoposta a un “breve corso sull’hijab” e rilasciata entro un’ora. In realtà venne trasferita in una stazione di polizia e il 16 settembre, dopo tre giorni di coma, morì. Il corpo presentava ferite riconducibili ad un pestaggio, sanguinamento dalle orecchie, lividi sotto gli occhi, fratture ossee e lesioni cerebrali. Alcuni testimoni oculari affermarono che, la studentessa che sognava di fare l’avvocato, era stata picchiata e che aveva battuto la testa.

Di Antonella Alba. (Rai News)

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