(Roma, Parigi, 06.08.2023). In Africa si sta scrivendo il capitolo più violento e affollato della competizione tra grandi potenze. Colpi di stato, guerre civili, guerre per procura, insorgenze terroristiche e processi di anarchizzazione stanno attraversando l’intero continente, dal Sahara occidentale raggiunto da nuovi venti di tensione al Congo nel vortice della guerra civile eterna.
Da quando la guerra mondiale in frammenti è entrata nel vivo, nel corso dei turbolenti anni Dieci, l’Africa ha sperimentato un crescendo di instabilità eccezionale, senza pari nel resto del mondo, che l’ha traghettata in cima alla classifica del caos: 65+ conflitti attivi in oltre venti paesi, coinvolgenti trenta attori nonstatali, che hanno provocato più di centomila morti soltanto nel 2022.
Guerre e instabilità sono quasi ovunque in Africa, dal deserto libico alle foreste mozambicane, ma una regione prevale su tutte quanto a concentrazione di violenze intercomunitarie, interetniche, interreligiose e politiche: il Sahel. Un primato che parla delle difficoltà di un processo di decolonizzazione mai terminato e, soprattutto, dell’importanza di quest’area per le grandi potenze del sistema internazionale.
Introduzione al Sahel
Il Sahel, il confine del deserto, è la regione a forma serpentinata che separa l’Africa settentrionale, culturalmente islamica ed etnicamente araba, dall’Africa centromeridionale, babelico guazzabuglio di fedi, etnie e tribù. Questa parete divisoria, che ha come due estremità l’Atlantico e il Rosso, è il punto di incontro e scontro tra le tante anime del continente e attraversa porzioni di Algeria, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Eritrea, Gambia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal e dei due Sudan.
Elementi climatici, demografici, geoeconomici e geopolitici rendono questa regione-cerniera un tubo bomba che, se sapientemente maneggiato, è suscettibile di provocare ingenti danni anche a lunghe distanze: sei abitanti su dieci hanno meno di venticinque anni, la desertificazione sterilizza più di un milione di ettari di terre coltivabili all’anno e le instabilità sociali e politiche, che non mostrano cenni di spegnimento, hanno prodotto cinquecentomila sfollati interni soltanto fra il 2021 e il 2022.
Quella del Sahel è una situazione esplosiva, esacerbata dall’espansione del terrorismo islamista – il 40% delle violenze jihadiste in Africa avviene in questa regione –, che l’Unione Europea ha provato a mitigare nell’ambito della politica di esternalizzazione delle frontiere: investimenti e accordi militari in cambio di cooperazione nel contrasto all’immigrazione illegale.
L’Unione Europea è nel Sahel, terra attraversata da 4,1 milioni di sfollati, per chiudere i rubinetti dell’immigrazione illegale. La Francia è nel Sahel per proteggere la potenza economica ed energetica della Françafrique. Russia, Cina e Turchia sono nel Sahel per decostruire l’Impero africano della Francia e per impossessarsi di un arsenale di armi di migrazioni di massa.
Sahel, la cintura indispensabile
Il Sahel è uno dei teatri-chiave della competizione tra grandi potenze ed è l’epicentro del suo capitolo africano, lo Scramble for Africa 3.0, per una combinazione di ragioni geostrategiche – costruzione di corridoi commerciali –, geoeconomiche – sfruttamento di risorse naturali –, politiche – ricerca di alleati – e belliche – guerre ibride.
Obiettivi uguali e contrari muovono i passi delle grandi potenze che agiscono nel bordo del deserto, dove si trovano considerevoli giacimenti di diamanti, ferro, litio, oro, petrolio, rame e uranio. La Mauritania è il terzo produttore al mondo di ferro. Il Niger è il primo rifornitore di uranio dell’Unione Europea. Nella top-cinque dei maggiori produttori africani di oro tre posizioni sono occupate da paesi saheliani: Burkina Faso, Mali e Sudan.
L’Unione Europea è nel Sahel per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia. La Russia è nel Sahel per dotarsi di leve ricattatorie da utilizzare nei confronti dell’Unione Europea. La Cina è nel Sahel per completare la costruzione del corridoio dei sogni: una rotta eufrasiatica, con prima fermata Pechino e con capolinea l’Atlantico, che sia in grado di legare i destini del giovane secolo cinese e dell’embrionale secolo africano.
La guerra mondiale che è esplosa nel Sahel è un hobbesiano bellum omnium contra omnes: la Turchia opera per conto proprio costruendo moschee, sponsorizzando i servizi del Gruppo Sadat e finanziando attività umanitarie, la Russia fa leva sul malcontento postcoloniale per incoraggiare colpi di stato – sette fra il 2020 e il 2023 – e arruolare le nuove giunte nella causa della Transizione multipolare, la Cina investe in infrastrutture commerciali ed energetiche e la Francia batte in ritirata dalla sua sfera d’influenza, rosicchiata da russi, cinesi, turchi, emiratini, iraniani e sauditi, alla ricerca di nuovi spazi tra Turkestan e Indo-Pacifico.
La guerra mondiale che è esplosa nel Sahel è il risultato di una combinazione di fattori geopolitici, geoeconomici e geostrategici. C’è chi vuol aprire i rubinetti dell’immigrazione illegale per provocare un allagamento in Europa e c’è chi vuol chiuderli. C’è chi vuol controllare i super-gasdotti che dai giacimenti dell’Africa occidentale potrebbero un giorno arrivare in Europa e c’è chi vuol sabotarli. C’è chi alimenta il terrorismo e c’è chi lo combatte.
Il vincitore momentaneo di questo capitolo della guerra mondiale in frammenti, che ogni giorno viene arricchito da una nuova pagina, è la Russia. Russia che è entrata nel Sahel in punta di piedi, i piedi del Gruppo Wagner, facendo cadere un tassello dopo l’altro del domino francese. Fino ad arrivare al Niger, l’intoccabile divenuto contendibile, col quale ha messo i rivali occidentali davanti a un logorante dilemma: intervenire rischiando una guerra regionale o non intervenire preparandosi a un effetto contagio. Scacco matto alla Françafrique. Per ora.
Di Emanuel Pietrobon. (Il Giornale/Inside Over)