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Scaduto l’accordo sul grano, cosa farà Erdogan ? L’ennesimo ritorno del «grande mediatore»

(Roma, 17.07.2023). Forte di un rapporto diverso con Putin, il presidente turco proverà a rinegoziare una nuova intesa per le esportazioni di prodotti cerealicoli da Odessa? Lo stesso ruolo, di conciliatore, nelle trattative per l’ingresso della Svezia nella NATO

Con l’annuncio ufficiale diramato oggi dal Cremlino, ripreso dalla Tass, in cui si comunica che l’accordo sul grano, per consentire le esportazioni di prodotti cerealicoli ucraini, si è concluso, ci si torna a interrogare sul ruolo del presidente turco Recep Tayyp Erdogan. È stato lui, infatti, il grande promotore dell’accordo scaduto oggi, siglato il 22 luglio 2022 col nome di Iniziativa del Mar Nero, firmata dai rappresentanti di Russia, Turchia, Ucraina e Onu. Dal 18 marzo scorso Mosca aveva deciso di estenderlo per 60 giorni, fino al 18 maggio; e poi, ultima data utile, sino a oggi. Ieri l’ultimo mercantile turco è partito dal porto di Odessa con un carico diretto verso le sponde meridionali del Mar Nero.

E ora Erdogan che farà ? Si riproporrà come “grande mediatore” di ampie e faticose trattative, non solo all’interno dello scenario bellico, tra Kiev e Mosca, ma su filoni più vasti? Il presidente, ex sindaco di Istanbul, forte della riconferma come capo dello Stato al ballottaggio dello scorso 28 maggio, interpreta da sempre il suo ruolo con uno spiccato attivismo internazionale, soprattutto in ambito mediorientale. Si ricordano, ad esempio, gli strali lanciati contro Israele per le sue operazioni nella Striscia di Gaza (al Forum economico di Davos, nel gennaio 2009, ci fu un famoso scontro verbale diretto tra l’allora premier turco e il presidente israeliano, Shimon Peres).

Per non parlare delle tensioni, anche recenti, con la Grecia (storico nemico di Ankara), che il diretto interessato minacciò l’anno scorso con toni da autentico sultano: “Ehi Grecia, guarda alla storia. Se superi i limiti, pagherai un altissimo prezzo. La tua occupazione delle isole non ci preoccupa. Quando sarà il tempo opportuno, faremo ciò che è necessario. E, come diciamo, possiamo piombare all’improvviso, in una notte”.

Da quando è salito al potere, Recep Tayyip Erdogan non ha fatto mistero di voler fare della Turchia una potenza regionale in tutta l’area del Medio Oriente, rafforzando la sua influenza all’interno dei confini del Paese mediante una torsione autocratica della democrazia (come si dice, una democratura); e, soprattutto, consolidando la stessa al di fuori della propria area d’azione. Per questo, con lo scoppio della guerra in Ucraina, pur facendo parte della Nato, Ankara non si è fatta condizionare più di tanto nel suo posizionarsi rispetto al fronte occidentale (Usa, Regno Unito e alleati), che sostiene militarmente Zelensky e lavora in sottofondo per una sconfitta di Putin sul campo.

Il rapporto con Putin, nonostante la guerra in Siria

Pur avendo votato con l’Occidente in occasione di importanti risoluzioni in sede Onu (il 7 aprile ‘22, quando le Nazioni Unite hanno escluso la Russia dal Consiglio dei diritti umani; e il 12 ottobre ‘22, per la condanna e il disconoscimento dei referendum russi nelle regioni occupate del Donbass), la Turchia incarna una posizione quantomeno “diversa” e “delicata”, che si riflette in atteggiamenti a volte più “morbidi” e “cordiali” nei confronti del Cremlino. Del resto, gli stessi presidenti, Erdogan e Putin, vantano un antico rapporto di amicizia e collaborazione (e, molto probabilmente, di stima reciproca), nonostante non sempre si siano ritrovati nella stessa “trincea”. È il caso della Guerra civile in Siria, in cui Mosca è intervenuta militarmente e in modo pesante a fianco del presidente Bashar el-Assad. Ankara si è invece posizionata vicino ai ribelli anti-Assad, moderati o più radicali (c’è di mezzo l’Isis), ostacolando l’azione dei curdi siriani in quanto alleati ai curdi di Turchia. Conseguenze e riflessi dell’annosa questione che coinvolge il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), accusato di terrorismo dal governo turco.

Il veto (sbloccato) alla Svezia nella NATO

Si arriva così alle recenti trattative che hanno portato allo sblocco della “questione svedese” in ambito Nato, vale a dire il veto posto da Erdogan all’ingresso di Stoccolma nell’Alleanza atlantica (dopo l’entrata, il 4 aprile scorso, della Finlandia, il cui dossier era stato separato da quello svedese proprio a causa dell’opposizione del presidente turco). L’impasse si è risolta nel corso del recente Vertice di Vilnius, in Lituania, durante il quale il segretario generale Stoltenberg ha annunciato che la Svezia diventerà il 32esimo membro della Nato. “Il prima possibile” ma “non prima di ottobre”, si è subito precipitato a precisare Erdogan. Gli analisti si sono esercitati a fare elucubrazioni su cosa ci sia dietro quel sofferto sì – ritardato dal fatto che Stoccolma, secondo il “sultano di Ankara”, avrebbe offerto protezione e assistenza agli esuli curdi del Pkk. E hanno avanzato qualche ipotesi: come rivelato pubblicamente dallo stesso Erdogan, in cambio del sì alla Svezia ci sarebbero state richieste parallele e convergenti per far entrare la Turchia nell’Unione europea. Uno scenario, tuttavia, immediatamente escluso e comunque al momento impossibile, per il mancato rispetto degli standard economici e di rispetto dei diritti umani dalle parti del Bosforo.

Cosa c’è, realmente, dietro la giravolta di Erdogan ? A mezza bocca, si fa capire che, in cambio, il presidente turco ha ottenuto importanti concessioni, non solo dalla Svezia (nuova legge antiterrorismo, lotta più agile ai gruppi terroristici, revoca del divieto di esportazione di armi alla Turchia) ma anche dall’Unione europea (nuovo negoziato per la liberalizzazione dei visti e per l’unione doganale) e dagli Stati Uniti (vendita degli F16 ad Ankara, bloccata da anni). Insomma, al momento è ancora presto per fare chiarezza intorno alla “vicenda svedese”. Ma è certo che, anche in questo caso, Recep Tayyip Erdogan ha fatto pieno ricorso alle sue doti di grande mediatore.

Di Antonio Bonanata. (Rai News)

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