(Roma, Parigi, 06.07.2023). “Io e la Somalia contro il mondo, io e il mio clan contro la Somalia, io e la mia famiglia contro il mio clan, io e mio fratello contro il mio clan, io contro mio fratello, io contro il mondo!” È un vecchio detto somalo ma che suona come un eterno anatema della Somalia. Il Paese del Corno d’Africa proprio in questi giorni è tornato al centro delle cronache per l’anniversario della battaglia del Checkpoint Pasta. E mentre l’Italia ricorda i suoi militari caduti 30 anni fa durante lo scontro consumatosi nelle strade della capitale somala quando imperversava la guerra civile tra i war lords Aidid e Ali Mhadi, il Paese africano intanto continua ad essere travolto da violenza e crisi umanitarie che dagli anni ’90 ad oggi non hanno mai cessato di condannare il popolo somalo.
L’ex colonia italiana continua ad essere un Paese senza Stato in preda alla guerriglia di Al Shabaab, dove i fallimenti governativi si succedono senza soluzione di continuità. La formazione islamista ha sotto suo controllo ampie porzioni del Paese e continua a condurre azioni anche oltre confine in Kenya e in Etiopia. Parallelamente la regione del Puntland è scossa da focolai di guerriglia e inoltre lo Stato del Corno d’Africa è una delle nazioni maggiormente colpite dalla crisi alimentare che ha travolto i Paesi africani a seguito della siccità degli ultimi mesi e della guerra in Ucraina che ha ridotto considerevolmente le forniture di grano.
Dentro la ribellione di Al Shabaab
Per poter fare un ritratto esaustivo dello stato delle cose in Somalia occorre quindi analizzare ognuno di questi fattori. Partendo ovviamente dall’aspetto maggiormente destabilizzante, ovvero la ribellione di Al Shabaab: il gruppo salafita legato ad Al Qaeda ormai una delle più longeve realtà islamiste a livello globale che il governo somalo e le forze internazionali si sono dimostrate incapaci di sconfiggere ed eradicare.
A inizio mese attacchi a colpi di mortaio, pochi giorni prima attentati contro hotel e postazioni governative, poi ancora azioni oltreconfine in Kenya, accompagnate da decapitazioni di civili, e in Etiopia. La formazione islamista nata nel 2002 e che nel 2011 governava l’80% del Paese, compresi diversi quartieri di Mogadiscio, rimane un’entità forte e stabile nello stato africano capace di rinascere, come una professionista della resurrezione, dalle proprie sconfitte, di riorganizzarsi e di infliggere pesanti perdite all’esercito somalo e ai contingenti internazionali.
La formazione jihadista che nel 2012 ha giurato fedeltà ad Al Qaeda basa la sua ideologia tra il connubio dell’islamismo e del nazionalismo pansomalo e oggi ha dato vita, nelle aree meridionali della nazione, a un vero e proprio Stato. Gli islamisti somali infatti hanno creato ospedali, scuole, un sistema di tassazione e centri di distribuzione di aiuti umanitari come ha raccontato il giornalista Jamal Osman nel suo reportage per Channel4 all’interno dell’Emirato somalo. La capacità da parte del gruppo terroristico di intervenire là dove l’esecutivo di Mogadiscio è assente è la ragione per cui gli irregolari sono riusciti ad ottenere l’appoggio di parte della popolazione tanto che il sito di analisi del terrorismo in Africa centro equatoriale Strategic Intelligence Service, ha annunciato che Al Shabaab nel solo 2023 ha reclutato e addestrato 5’000 nuovi effettivi portando il numero dei suoi combattenti a 17.000.
Cifre che sembrano iperboliche ma che in realtà, se si osserva l’aumento delle azioni e il salto di qualità da un punto di vista strategico militare condotto dai miliziani jihadisti negli ultimi due anni, trovano una loro assoluta coerenza. Il 2022 è stato infatti l’anno più mortale in Somalia, almeno dal 2018, con oltre 6.500 vittime segnalate, rispetto alle 3.500 vittime del 2021. Nel 2022 Al Shabaab ha operato in tutto il Paese e in particolare nelle regioni di Banadir, Lower Shabelle e Lower Juba, dove gli insorti si sono scontrati con il personale di sicurezza somalo e le forze internazionali. I militanti hanno adottato tattiche di combattimento notturno e aumentato il loro uso di Ied e di fronte a una campagna coordinata di contro-insurrezione, Al Shabaab ha anche fatto ricorso all’abbandono delle proprie basi per attirare le forze di sicurezza e tendere loro imboscate rivelatesi poi vincenti. E tra i loro obiettivi ci sono state le forze dell’esercito regolare somalo, i civili e gli uomini del contingente dell’Unione Africana.
La fine della missione ATMIS
Ed è proprio il ritiro della missione ATMIS (African Transition Mission in Somalia) dell’Unione Africana che avverrà a partire da settembre 2023 e si concluderà a dicembre 2024, come deliberato dal Consiglio delle Nazioni Unite con la risoluzione 2687, uno dei nodi cruciali in merito al futuro del Paese. La missione che vede impegnati 22mila uomini di Burundi, Gibuti, Etiopia, Kenya e Uganda in questi ultimi mesi ha avuto il compito di opporsi ai salafiti e soprattutto di formare e accompagnare l’esercito somalo verso una sua piena autonomia, così da lasciargli il testimone nella guerra contro il terrorismo appena avverrà il ritiro delle truppe africane. I vertici dell’Unione Africana hanno fatto sapere che la missione in Somalia è stata la più dispendiosa di tutte quelle a guida UA e che il governo somalo troverà comunque dei partner locali che gli garantiranno supporto e aiuto nella lotta contro gli jihadisti. E a tal proposito va segnalato il ritorno nel Corno d’Africa delle forze Usa.
Meno di due anni dopo il ritiro delle truppe statunitensi dalla Somalia nel gennaio 2021, il personale militare statunitense è tornato nel Paese lo scorso anno. A maggio 2022, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha approvato un piano per ridistribuire diverse centinaia di truppe in Somalia per assistere le forze di sicurezza somale nell’avanzata verso le aree controllate da Al Shabaab e ha condotto oltre 18 attacchi aerei che hanno provocato, secondo le stime americane, 300 vittime ribelli. Ma non sono mancati anche i morti tra i civili come è avvenuto nel villaggio di Mubaarak nella regione del Lower Shabelle, il 7 settembre, quando un incursione aerea americana ha colpito la stazione degli autobus facendo una strage.
L’ombra di uno scenario afghano
Alla luce di tutto ciò e in considerazione anche del fatto che il governo del presidente Hassan Sheikh Mohamud, che si è insediato a maggio al posto del suo predecessore Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo dopo un’elezione combattuta, continua a vivere fratture interne e governa solo in alcune aree del Paese. E considerando pure che l’esercito regolare militarmente si appoggia alle milizie claniche locali per poter compensare le sue mancanze, ecco che allora è facile comprendere perchè non son pochi coloro che ritengono che il ritiro della missione dell’ Unione Africana possa prefigurare uno scenario afghano in Somalia.
Tra le personalità più in vista a sostenere questa tesi c’è Mohamud Sayid Aden, vicepresidente del Jubaland, una regione in cui operano le truppe keniote ed etiopi, che ha dichiarato a VOA Somalia: “Il nemico otterrà un vantaggio. I civili che hanno fatto affidamento sulle forze somale e ATMIS dovranno affrontare la vendetta da parte dei militanti di Al Shabab, il piano di ritiro non è ben congegnato ed è molto frettoloso e per le forze somale sarà molto difficile mettere in sicurezza le aree lasciate libere dalle truppe dell’Unione Africana”.
Le spaccature interne
Considerazioni a cui è impossibili non prestare attenzione perché il problema della violenza in Somalia non è legato soltanto alla branca somala di Al Qaeda ma ci sono scontri quotidiani, sono emerse formazioni legate a Daesh a macchia di leopardo e, in quasi tutte le aree del Paese, la violenza è endemica compreso nella regione semi-autonoma del Puntland dove da mesi le fazioni rivali hanno dato vita a scontri per le strade, soprattutto nel capoluogo Garowe, a causa della legge votata dal Parlamento che prevede il cambio del sistema di voto. Negli ultimi giorni sembra che i due leader politici, Islaan Isse e Said Abdullahi Deni siano riusciti a trovare un fragile accordo di cessate il fuoco. La tensione rimane comunque altissima, il rischio che gli scontri possano riprendere è più certo che plausibile e intanto le vittime sono state oltre 300 e gli sfollati più di 200.000.
L’impatto della crisi umanitaria
La Somalia infatti, oltre ad affrontare i conflitti etnici e la guerra tra Al Shabaab e il governo di Mogadiscio sta fronteggiando una delle peggiori crisi umanitarie di sempre. Stando a quanto emerso dal report delle Nazioni Unite metà della popolazione, 8 milioni e mezzo di cittadini, ha bisogno di assistenza umanitaria immediata per sopravvivere, 4 milioni sono sfollati interni e negli ultimi mesi la situazione si è esasperata ulteriormente perchè per oltre 5 stagioni consecutive non si sono registrate piogge e quando sono arrivate hanno provocato inondazioni che hanno costretto più di 100’000 persone ad abbandonare le loro abitazioni. Non solo. Vista la situazione di instabilità e di inaccessibilità in molte aree del Paese, a molti cittadini è preclusa la possibilità di aver accesso agli aiuti umanitari. Se alla luce di questi dati la situazione rimanesse ancora eccessivamente astratta per poterne comprendere la drammaticità umana di quanto sta avvenendo in Somalia, allora è ben riportare la storia di Maceey Shute, capace di riassumere lo stato di disperazione del popolo somalo e della Somalia in generale.
La donna che vive con i suoi sei figli in una tendopoli fuori dalla città ha confessato a El Pais che non c’è alcuna maniera per poter avere aiuti e cibo e quindi per poter avere degli alimenti per i suoi bambini li avvelena facendogli bere dell’acqua mischiata con sapone e sale così che poi possano essere ricoverati nell’ospedale Benadir. “Faccio questo perché così la diarrea diviene più acuta e il bambino è debilitato. Poi lo porto in ospedale e lì mi danno dei biscotti nutritivi e dell’altro cibo. Quello che avanza poi lo do agli altri miei figli o li rivendo. Questa è la sola maniera con cui mi procuro da mangiare, questa è la condizione a cui sono arrivata per far sopravvivere i miei bambini”. Questa è la condizione in cui versa oggi la Somalia.
Di Daniele Bellocchio. (Inside Over)