(Roma, 25.05.2023). Ci fu un periodo, diciamo dalla fine degli anni cinquanta alla fine degli anni sessanta, in cui il Libano veniva considerato la “Svizzera del Medio Oriente”.
Perché terra di rifugio e di accoglienza e oasi di (relativa) pace in un Medio Oriente, luogo di rivoluzioni violente, di guerre e di feroci intolleranze; e centro di commerci e di relazioni internazionali. Per la bellezza struggente dei luoghi, il miracolo delle acque e dei cibi e la frescura di montagne vicine e accessibili. Per la naturale empatia e affettività degli abitanti. Per i suoi culturali, religiosi e umani con l’occidente e, soprattutto, con la Francia. E magari anche perche meta ideale di fuga, per finanzieri e trafficanti vari, inseguiti dalla giustizia e dai creditori.
Pochi si domandarono, all’epoca se, al di là di queste caratteristiche, lo stato libanese disponesse dei requisiti o, più esattamente, delle garanzie che avevano reso possibile, e consolidato nel tempo, la neutralità della Svizzera e il suo luogo di paese rifugio per gli operatori finanziari dei paesi circostanti. Per non parlare della risorse diplomatiche che avevano favorito la sua presenza privilegiata in tutti i paesi del mondo.
A difendere, e fin dal principio, la Svizzera da incursioni esterne il suo inaccessibile sistema montagnoso, unito al ben noto valore militare dei suoi abitanti e all’assenza di risorse da predare. A garantirla, in epoca moderna, le stesse considerazioni, unitesuo valore di paese rifugio “ per le cose e per le persone” a disposizione di tutti i contendenti. Corrispettivo di una neutralità difesa gelosamente sino ad oggi.
Condizioni di favore di cui il Libano non ha mai goduto, da quando ha raggiunto la sua indipendenza. Militarmente debole, in un mondo in cui le armi e la volontà di usarle non sono mai mancate. Pluralista in un contesto in cui il pluralismo e la stessa libertà sono sempre stati percepiti come una concessione o uno stato di cose revocabile e transeunte. Politicamente diviso e articolato in un’area in cui l’unità, comunque conseguita, è percepita come un valore. Cristiano tra musulmani. Occidentale, anzi occidentalista, in una zona in cui il nazionalismo, di tipo politico e religioso vedeva aveva come suo comun denominatore la contestazione dell’eredità coloniale e la liberazione dagli antichi padroni. Aggiungendo a tutto questo l’handicap tutt’altro che marginale di vedere, in linea di principio, la sua identità nazionale negata dal suo potente vicino, la Siria, in nome di una, del tutto ipotetica, fratellanza e comunità di destini troncata abusivamente dai dominatori francesi al tempo del mandato.
Una fragilità naturale che avrebbe posto il nuovo stato ad ogni tipo di attacco. Come di fatto è avvenuto: dalle guerre civili, le più lunghe che la storia recente ricordi, alle invasioni e occupazioni straniere; fino alla dissoluzione e dello stato e, quello che è peggio, della stessa comunità.
E allora, questo “unicum”, prezioso quanto fragile, poteva essere salvato solo ad alcune condizioni.
La prima e più essenziale era che lo spirito di comunità prevalesse sulle naturali e legittime appartenenze politiche e religiose. Un’esigenza che portò all’accordo nazionale del 1943: garantire ad ogni comunità uno spazio permanente all’interno delle strutture politiche e dei più grandi istituti pubblici avrebbe ridotto le ragioni del loro naturale antagonismo, spingendole se non a collaborare a tollerarsi vicendevolmente.
La seconda è che un paese, se non altro in quanto propaggine dell’occidente, della sua cultura e dei suoi valori, godesse della protezione dell’Occidente o, meglio ancora, della collettività internazionale. Una protezione che, se fosse stata manifestata con chiarezza, non poteva essere contestata da nessuno; non fosse altro perché si proteggeva il Libano per quello che era e non ceto per il suo potere politico, economico o militare.
La terza investe il mondo che circonda il Libano. E che vede il paese come un luogo in cui esercitare liberamente la sua influenza e promuovere i suoi interessi. E ha a che fare con la necessità che questa influenza venga esercitata con misura, senza uso della violenza e, soprattutto, senza rimettere in discussione l’indipendenza del paese.
A proteggere, in qualche modo, il “modello Libano”bastava una sola di queste condizioni. Ma il fatto è che non è scattato nel corso di ottant’anni nessun meccanismo protettivo. Come sanno benissimo gli amici di Mena a cui è dedicato questo piccolo contributo. Non tanto per ricordare le vicende che hanno portato il paese ai limiti dell’autodistruzione, riaprendo, così, antiche e recenti ferite; quanto per verificare, qui e oggi, se esista ancora qualche possibilità per evitare che il Libano e i libanesi scompaiano definitivamente dalla scena.
Agli inizi della tragedia ognuno dei suoi protagonisti da il peggio di sé. Arafat, cacciato dalla Giordania e sotto stretto controllo in Siria, decide di usare il Libano come centro e piattaforma della lotta armata contro Israele; ben sapendo che sul fronte Sud non c’è partita e che nessun paese arabo entrerà in guerra per difenderlo. I leader drusi, sunniti e sciiti si uniscono ai palestinesi in una guerra civile destinata a rimettere in discussione gli equilibri confessionali esistenti e durata, con intermittenti periodi di calma, per circa 15 anni. Gli israeliani intervengono, con il pretesto del ferimento di un loro diplomatico a Londra, per poi ritirarsi, lasciando dietro di sé l’assassinio del presidente libanese e il massacro di Sabra e Chatila. Americani ed europei decidono di intervenire, apparentemente con lo scopo di “separare i contendenti”, per poi ritirarsi frettolosamente dopo gli attacchi terroristici di cui erano stati oggetto da parte di un movimento armato, propaggine della recentissima rivoluzione iraniana. Infine, la vicina Siria, interessata a che nessuna delle cosiddette “fazioni libanesi” vinca, per controllarle tutte, occupa il Libano, con l’esplicito consenso degli americani, in compenso della sua partecipazione alla coalizione anti irachena, costruita in occasione della prima guerra del Golfo.
Il tutto mentre l’Occidente assiste con distacco agli “scontri tra le fazioni libanesi” o, peggio ancora, tra “progressisti e nazionalisti”, incapace di comprendere quale fosse la posta in gioco.
Una tragedia. A bloccarla sul nascere o a mutarne il corso sarebbe bastato che uno, uno solo dei suoi attori, rispettasse le regole non scritte che abbiamo ricordato. Non lo ha fatto nessuno. E il risultato è stato la distruzione di un paese e di una comunità, di più di un modello che avrebbe dovuto essere preservato ad ogni costo.
Da allora in poi il problema del Libano e dei libanesi sarebbe diventato puramente esistenziale. In un piccolo universo, attraverso non da grandi dispute politiche e ideologiche ma dalla brutale distinzione tra i detentori del potere e il grande popolo senza potere e senza diritti. E permanentemente oscillante tra una protesta senza sbocchi e una passività disperata. Per concludersi con l’abbandono del paese.
Nel frattempo, però, nell’ultimo decennio, il mondo esterno cambiava radicalmente.
Agli inizi le “primavere arabe”. Dal Mediterraneo occidentale fino agli altipiani iranici, popoli a ribellarsi contro il potere esistente, guidati dai giovani e da ceti medi illuminati e occidentalizzanti. Nel bel mezzo, l’arrivo di Obama e il suo discorso all’università del Cairo: un appello a protagonisti immaginari ( islam democratico, governi, “due popoli, due stati” e così via) a fare pulizia in casa propria, nella sicurezza di essere appoggiati dall’America. Diciamo l’invito inconscio a realizzare, nello scenario mediorientale, il processo di “dissoluzione consensuale”che aveva portato al crollo pacifico dell’Unione sovietica e del campo socialista.
Le cose, com’è noto, sono andate nel senso esattamente opposto. Il ritorno di tirannie assai più feroci di quelle che erano state, momentaneamente, spodestate. L’accendersi di guerre di tutti contro tutti, perse, tutte, dai popoli, come dalle varie minoranze, vinte compiutamente da nessuno. Il disimpegno complessivo dell’Occidente: l’Europa ridotta ad un “flatus vocis”, totalmente inascoltato; gli Stati Uniti presenti ma al seguito di interposti stati, in primis Israele. Oltre che dispensatori di sanzioni che hanno regolarmente colpito i governati e non i governanti; o, detto più brutalmente, gli oppressi e non gli oppressori.
Alle vittime la possibilità di protestare, talora, come appunto in Libano, in modo unitario. Almeno per un certo periodo di tempo. Ma al potere, diventato nel frattempo sistema, il diritto di non tenerne alcun conto. Anche perché le forze, come il blocco sciita, che avevano distrutto con la violenza il vecchio modello e, con esso, l’identità libanese, si sono arroccate a difesa del nuovo. Diventando conservatrici, non per preservare i vecchi ideali ma a salvaguardia dei nuovi e corposi interessi. Anzi delle proprie rendite di posizione. E di un sistema stagnante in cui l’interesse privato, accompagnato da una generale corruttela, fa sempre premio su quello pubblico. A tutto danno dei più deboli, leggi della generalità dei cittadini.
In questo quadro, il popolo libanese soffre, a differenza degli altri popoli dell’area del “combinato disposto” della prevaricazione del potere e dell’assenza dello stato.
E questo perché nel paese esiste uno stato nello stato- militarmente, economicamente e socialmente- intollerante di qualsiasi regola e di qualsiasi limite; diciamo una grande torta con fette da distribuire ai clienti operanti in altre comunità, per tenerseli buoni, leggi beneficiari e complici nella gestione del sistema.
Ma, si sa, dietro ogni potere assoluto c’è la tentazione dell’abuso. Esemplificato, proprio in questi giorni, dalla pretesa di eleggere presidente della repubblica un esponente della comunità cristiana ad un tempo infeodato alla Siria e, ciò che forse più conta, complice attivo del sistema di reciproche corruttele che soffoca il paese. Contro di lui, in un contesto di paralisi istituzionale, la quasi totalità del campo cristiano, politico ma anche religioso, leader drusi e sunniti. Per tacere delle preoccupazioni crescenti del Vaticano e di Washington.
Il tutto si è tradotto, come da copione, in uno stallo da cui non si scorgono vie d’uscita. Ma che garantisce anche lo spazio temporale ( nuove guerre civili non le vuole nessuno) per addivenire ad un’intesa che salvi il salvabile.
Difficile, anzi praticamente impossibile che i libanesi ci arrivino da soli. E decisivo, allora, l’input che verrà dal mondo esterno. Parliamo da una parte delle grandi organizzazioni internazionali; come dell’America e, in subordine della Francia. E, per altro verso, di un mondo arabo orientato, negli ultimi tempi, verso un generale superamento dei propri conflitti interni e, in particolare di quello tra il blocco saudita e quello iraniano.
Non si chiede poi molto. A Washington e al Fondo Monetario di non continuare a subordinare la fine delle sanzioni e l’invio di aiuti alla soluzione del problema politico che impedisce la messa in opera delle riforme; ma di contribuire, qui e ora, con l’invio di aiuti al raggiungimento di in un accordo in tal senso. E alla Francia di non rinunciare cinicamente ai valori che professa per il piatto di lenticchie di un accordo sotto banco con la Siria. E magari alla partecipazione di ditte francesi alla ricostruzione che verrà.
Ai governanti dell’area, e in particolare ai vertici della coalizione saudita e di quella iraniana, poi, il compito di dare fiato e prospettiva al patto di non aggressione sottoscritto di recente grazie alla mediazione cinese. Nello Yemen ma anche in Libano.
E’ anche nel loro interesse. Perché il permanere anzi l’aggravarsi dello scontro tra i loro referenti politici in questi due paesi finirebbe con il rimettere in discussione anche l’accordo tra Ryad e Teheran. Mentre l’inizio di un processo di un processo di “de escalation”, militare a Sanaa e politico a Beirut, aprirebbe la strada al ritorno sulla scena della collettività internazionale.
Una strada stretta. Ma anche l’unica percorribile. Non fosse altro perché, come dovrebbe essere chiaro a tutti, l’elezione di un presidente fantoccio in Libano sarebbe per il paese, per la sua gente e per la sua comunità cristiana una sorta di “soluzione finale”. Una soluzione che porrebbe ai vinti l’”alternativa del diavolo” tra la resa e la fuga. Nei due casi, la scena finale della tragedia del Libano.
Di Alberto Benzoni