Il ritorno di Al Qaeda

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(Roma, 28 luglio 2022). L’obiettivo primario era distruggerla. Fare in modo che non potesse più colpire e che i suoi capi fossero annientati. Eppure, dopo oltre vent’anni all’11 settembre Al Qaeda è ancora viva, e soprattutto mostra inquietanti segni di risveglio.

Mentre scorrevano i titoli di coda sull’operazione militare americana in Afghanistan ci si chiedeva se la terra dei talebani sarebbe tornata ad essere un santuario per gli jihadisti. L’amministrazione Biden, nei giorni del caos all’aeroporto di Kabul, aveva sottolineato più volte che l’obiettivo primario dell’invasione era stato raggiunto, che Osama Bin Laden era stato individuato e neutralizzato. Eppure nuovi rapporti e dossier mostrano che anche senza il suo fondatore “la base” è ancora in piena attività.

L’Afghanistan ritorna un santuario del terrore

A metà luglio un lungo e dettagliato dossier delle Nazioni Unite ha riacceso i riflettori sulle orazioni terroristiche come Al Qaeda e Stato Islamico e trovato preoccupanti linee di faglia. Per prima cosa si evidenzia che l’Afghanistan è tornato a essere un rifugio sicuro per gli uomini di Ayman al-Zawahiri, che con il ritorno dei talebani hanno riconquistato spazio di manovra. Anche perché, nota il rapporto Onu, “la leadership di Al Qaeda svolge un ruolo di consulenza presso i talebani e i due gruppi rimangono legati”. Un’unione di intenti non nuova. Già nel 2020 durante gli ultimi momenti concitati delle trattative di Doha tra talebani e Stati Uniti, gli studenti del Mullah Omar consultavano regolamento la leadership qaedista.

Stando ai dossier Al Qaeda rimane presenza nel Sud e nell’est del Paese dove il gruppo è radicato da decenni. Ma cellule si stanno spostando a che verso Ovest, nelle province di Farah e Herat, e verso Nord con lo scopo di reclutare nell’area centro asiatica grazie ai legami con altre formazioni come il Turkistan Islamic Party. Per avere un’idea del livello di commistione tra Al Qaeda e i talebani basti pensare che uno dei rami dell’organizzazione, Al Qaeda nel Sub Continente Indiano (AQIS) che può contare su circa 400 uomini serve direttamente nelle unità di combattimento talebane.

La competizione con l’Isis

Questa alleanza, ma soprattutto la ritrovata libertà di movimento, ha ridato slancio al gruppo. Lo stesso medico egiziano, che nel 2011 ha raccolto la leadership del gruppo dopo la morte di Bin Laden, è tornato a produrre più video, comunicando frequentemente con gli affiliati. Nel dossier si scrive chiamante come “il contesto internazionale sia favorevole ad Al Qaeda che punta a ritornare ad essere il leader della jihad globale dopo gli anni dell’Isis”. Oggi, notano gli esperti, la macchina della propaganda qaedista è meglio attrezzata per competere con quello che resta dello Stato Islamico. Complice anche una dura campagna contro i suoi leader, l’Isis appare in affanno, mentre al contrario Al Qaeda si mostra in ascesa, con Al Zawahiri non solo vivo, ma capace di continuare a comunicare.

Daveed Gartenstein-Ross, analista esperto di anti terrorismo del Valens Global, ha spiegato a Voa come sia evidente “che Al-Zawahiri sia stato sottovalutato e che Al Qaeda oggi sia un’organizzazione molto più forte rispetto a quando il medico ne prese le redini nel 2011 dopo la morte del fondatore”. L’intero impianto del dossier Onu mette in discussione l’efficacia delle strategie antiterrorismo degli Stati Uniti e in generale dell’Occidente. Katherine Zimmerman del American Enterprise Institute ha spiegato come “anche dopo 20 anni, alcuni degli agenti più anziani del gruppo rimangano in libertà e siano pronti a portare avanti la lotta”. “La panchina di Al Qaeda”, ha scritto, “è profonda nonostante la lunga guerra condotta dagli Stati Uniti in Afghanistan. La prossima generazione che guiderà il gruppo in realtà sta combattendo già da 20 anni, hanno la stessa esperienza militare che avevano Osama Bin Laden, Ayman Al-Zawahiri e Saif Al-Adel l’indomani dell’11 settembre”.

La questione della successione

È proprio da questo punto che il dossier delinea gli aspetti più significativi. La linea di successione all’organizzazione. Perché se è vero che Al Zawahiri è vivo e continua a comunicare, le sue condizioni di salute restano precarie e verrà il tempo per trovare un successore. Secondo gli analisti degli Stati membri dell’Onu che hanno partecipato alla stesura del report sono almeno quattro i papabili e ognuno di questi dà indicazioni quale potrebbe essere il destino del gruppo. Si tratterebbe di Saif Al-Adel, Abdal Rahman al-Maghrebi, Yazid Mebrak e Ahmed Diriye.

Il primo Al-Adel è l’ipotesi meno praticabile. Fuggito in Iran dopo l’11 settembre 2001, avrebbe operato tra il Paese degli Ayatollah, il Pakistan e il nord dell’Afghanistan. Oggi dovrebbe essere tornato in Iran, ma il Paese è sempre meno un porto sicuro per Al Qaeda. Nel 2020 Abu Muhammad al-Masri, una delle menti dietro agli attentati contro le ambasciate Usa di Nairobi e Dar es Salaam, numero 2 del gruppo e suocero di Hamza bin Laden, è stato raggiunto da dei sicari (forse israeliani) e freddato a colpi di pistola. Questo rende Al-Adel il prossimo della lista e quindi l’opzione meno praticabile per la successione.

Quello più papabile è Abdal Rahman al-Maghrebi, genero di Al Zawhairi e combattente di lungo corso di Al Qaeda. Nato in Marocco, ha ricoperto vari ruolo nell’organizzazione. Secondo il dipartimento di Stati Usa Al Maghrebi è il direttore di As Sahab, braccio centrale dei media del gruppo ma anche il capo dell’ufficio per le comunicazioni estere, un ruolo tutt’altro che burocratico dato che si occupa di coordinare le attività con tutti rami affiliati al gruppo nel mondo, dall’Asia all’Africa, passando per il Medio Oriente. In più dal 2021 è direttore generale di Al Qaeda per l’Afghanistan e il Pakistan. Tutti ruolo verticali che ne fanno il candidato designato.

Il futuro: l’ombra sull’Africa

Ma a dire di più sul futuro del gruppo è un altro dato: il nome degli altri due papabili. Yazid Mebrak, noto anche come Abu Ubaydah Yusuf Al-Anabi, è attivamente il capo di AQIM, Al Qaeda nel maghreb islamico, una formazione fortemente ridimensionata in Africa che mantiene il cuore delle attività in Algeria. Mebrak però ha un ruolo chiave nel coordinare le attività con JNIM (Jamaat Nusrat al Islam wa al Muslimin), emanazione qaedista molto attiva nel cuore del Sahel.

Il quarto e ultimo in questa sorta di linea di successione, Ahmed Diriye è il capo del gruppo terroristico Al-Shabaab. Dal 2014 guida gli islamisti che controllano parte della Somalia, una formazione che nel 2012 ha giurato fedeltà proprio ad Al Qaeda. Il fatto che venga considerato come papabile qualcuno che non sia nato e cresciuto all’interno dell’organizzazione dà il segno evidente di come siano cambiati gli equilibri nel gruppo.

Il gruppo che controlla il il Corno d’Africa ha risorse quantificabili in 50-100 milioni di dollari l’anno, e di questi almeno 24 vengono spesi in armi ed esplosivi. Ma soprattutto una fetta dei fondi viene dirottata ogni anno proprio verso Al Qaeda. Al-Maghrebi, Mebrak e Diriye, tre nomi e tre storie che portano diretti all’Africa, vera terra di conquista del jihad qaedista contemporaneo.

Per il momento il continente rimane terra di conquista per le province dello Stato Islamico, ma Al Qaeda e affiliati come JNIM continuano a guadagnare terreno. Tolte le “roccaforti” libiche e somale, JNIM ha ampliato l raggio di azione oltre il Mali e i confini porosi limitrofi infilandosi anche in Burkina Faso, Costa d’Avorio, Senegal, Togo e Benin. L’espansione è il frutto di un lavoro portato avanti negli ultimi 5 anni da Iyad Ag Ghali un tuareg che guidò parte dell’insurrezione contro il governo del Mali nel 2012 e che nel tempo ha lavorato alla fusione di vari gruppi terroristici, Al Qaeda nel Magreb inclusa, arrivando alla nascita ed espansione del JNIM.

Questa virata africana si è resa necessaria per il progressivo indebolimento di un altro fiore all’occhiello di Al Qaeda, il braccio operante nella penisola arabica. AQAP, capace di rivendicare altri attacchi globali dopo l’11 settembre, come l’agguato alla sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo nel 2015 o la sparatoria nella base aerea di Pensacola in Florida nel 2019, è progressivamente passata in secondo piano. Negli anni della violenta guerra in Yemen da un lato AQAP si è concentrata sul controllo del territorio, dall’altro è stata decapitata dai droni americani che ne hanno ucciso la leadership in modo continuativo.

L’ultimo anno ha certificato la pericolosità del rinnovato patto tra talebani e Al Qaeda che ha la possibilità di continuare a fiorire quanto meno in influenza rispetto a tutte le sue succursali. E questo perché orami il cuore afghano rimane come centro decisionale ma non come attore attivo del terrore. Il dossier Onu conclude che per il momento la leadership si asterrà dal condurre attacchi esterni almeno per due motivi. Il primo per l’assenza di “capacità operative esterne” dato che ormai le operazioni vengono condotte dagli affiatati. Il secondo è strategico, effettuare attacchi accederebbe un faro sulle attività del gruppo e soprattutto dei talebani esponendoli a rappresaglie e a ritorni di fiamma da parte dell’Occidente.

Di Alberto Bellotto. (Inside Over)