(Roma, Parigi, 30 giugno 2022). Mentre si potrebbe procedere al rafforzamento del fronte baltico (e alla sua messa in sicurezza) si apre la fiera della moneta che Ankara chiederà in cambio. Dal gas agli equilibri nel Mediterraneo
La caduta del veto turco per l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato porta in grembo due notizie: una buona e l’altra meno buona. La prima è che il rafforzamento e la messa in sicurezza del fronte baltico non è più solo un’opzione futura, ma un obiettivo del breve periodo facilmente raggiungibile. La seconda è cosa chiederà in cambio Recep Tayyip Erdogan che, verosimilmente, non si accontenterà di una semplice pacca sulle spalle.
La Nato rinasce, in sostanza, dopo gli appellativi poco esaltanti di Macron e Trump (“è in morte cerebrale” disse il presidente francese) e lo fa in una nuova veste. Lo si può desumere anche dall’impronta che il premier italiano Mario Draghi ha intenso dare valorialmente alla causa quando ha lavorato, non più a fari spenti, per un tetto al prezzo del gas o per una strategia complessiva euroatlantica diversa e tarata sulle nuove emergenze. L’Alleanza si prepara in questo modo a rintuzzare gli eventuali colpi di testa di Mosca in quelle acque dove, da tempo, si assiste a sconfinamenti, rivendicazioni, azioni di disturbo e finanche a incidenti rimasti senza colpevole come la rottura improvvisa (tranciati?) di preziosi cavi elettrici sottomarini.
Il prezzo da pagare
Ankara, Helsinki e Stoccolma hanno firmato un memorandum che affronta le preoccupazioni espresse dalla Turchia, comprese le esportazioni di armi e la lotta al terrorismo. Secondo il governo turco i tre paesi hanno deciso di intensificare la cooperazione nel settore della difesa e di revocare qualsiasi restrizione. Istituiranno inoltre un meccanismo di condivisione delle informazioni per combattere il terrorismo.
Tradotto, ok all’allargamento, togliendo la foglia di fico della non primaria condicio sine qua non rappresentata dal Pkk, ma adesso si affrontino i veri dossier che sono in cima ai pensieri di Erdogan: ovvero il gas. Il primo punto che potrebbe essere toccato è il gasdotto Eastmed, su cui già c’è stato lo stop americano: Ankara la considera un’infrastruttura che bypassa gli interessi turchi, perché porterebbe il gas da Israele al Salento, passando da Cipro e Grecia. Ma, di contro, i copiosi giacimenti presenti nel Mediterraneo orientale, come Zohr, Nohr, Leviathan e Glauko, non possono rimanere inutilizzati alla luce della gravissima crisi energetica in atto.
Per cui è ipotizzabile che si apra un nuovo scenario pratico, con terminali di gas a terra, dove far confluire il gas e di lì inviarlo con navi gasiere ai paesi euromediterranei interessati all’approvvigionamento in questione.
Scenari
E’ chiaro che in questa fase di acute criticità, come la crisi bellica, quella del grano, quella delle materie prime e, non ultima, quella geopolitica in atto tra Usa, Ue, Cina e Russia, occorre come il pane individuare una exit strategy (e lo ha lasciato intendere anche l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger due giorni fa). Il punto vero sarà capire quali benefici ci saranno dall’inclusione turca in questa partita e quali nuove potenziali criticità. Qualora in vista delle elezioni del 2023 Erdogan fosse tentato di accentuare mire personali, ad esempio, in tutto lo spettro di acque che va dall’Egeo al Mediterraneo, occorrerebbe una “europolitica” di deterrenza che impedisca lo schema Crimea in altri settori sensibili, come ad esempio Cipro.
Di Francesco De Palo. (Formiche)