(Roma, 18 giugno 2022). Se in Ucraina, già dall’inizio del conflitto, si è parlato di “nuova cortina” lungo il fiume Dnepr, in Siria questa demarcazione da anni prende le sembianze di un altro fiume storico, l’Eufrate. Il grande corso d’acqua divide il Paese arabo in due distinte zone di influenza. Solo che cambiano, a differenza dell’Ucraina, i riferimenti geografici: a ovest ci stanno i russi, a est invece gli statunitensi. Non ci sono documenti formali a sancire questa divisione, si tratta più che altro di taciti accordi tra Mosca e Washington sorti durante gli anni della guerra all’Isis. Ma adesso questo fragile equilibrio potrebbe rompersi. Il timore è che anche in Siria russi e statunitensi inizino a guardarsi con sempre più reciproca diffidenza. Arrivando così a un incidente in grado di creare ulteriori escalation. Con il conflitto in Ucraina cioè, anche la cortina dell’Eufrate potrebbe vacillare.
Da dove nasce la “spartizione” della Siria
Dal 2011 la Siria è in guerra. Le cosiddette primavere arabe sono arrivate a lambire Damasco e, da allora, il Paese si trova dentro una spirale di violenza mai del tutto sopita. Quando il governo del presidente Bashar Al Assad, storico alleato della Russia, ha iniziato a vacillare le potenze regionali hanno subito colto la palla al balzo per provare a espandere le proprie zone di influenza. La Turchia di Erdogan ha subito appoggiato una galassia di milizie, spesso collegate alla sfera islamista, in grado di destabilizzare la situazione. Stesso discorso per quanto riguarda il Qatar e l’Arabia Saudita. Ogni capitale mediorientale ha sponsorizzato la propria sigla di riferimento con l’intento di capovolgere lo sciita (e quindi filo iraniano) Assad e piazzare un governo più vicino alla galassia sunnita. L’occidente da parte sua non è certo rimasto a guardare.
Gli Stati Uniti di Barack Obama e Hillary Clinton hanno spinto per la destituzione del presidente siriano, l’Europa ha imposto delle sanzioni alla Siria ancora oggi in vigore (e ancora oggi nocive soprattutto per la popolazione). Così facendo però, il territorio siriano è diventato preda delle organizzazioni jihadiste. Il Fronte al Nusra ha occupato diverse regioni a nord, mentre da est l’Isis di Al Baghdadi ha portato l’avanzata fino a Palmyra fondando poi nel 2014 il califfato islamico. Nel 2015 la Russia ha quindi deciso di intervenire direttamente a difesa di Assad.
Ma anche a Washington si è deciso di passare all’azione diretta. Non certo a favore del presidente siriano, bensì a sostegno delle milizie curde stanziate soprattutto a est dell’Eufrate. É nata così la spartizione della Siria. Il Cremlino ha aiutato il governo di Damasco a riprendersi tutte le città più importanti a ovest, compresa Aleppo e a eccezione (per il momento) di Idlib. Mentre nelle regioni orientali la Casa Bianca ha dato manforte ai curdi e alle sigle loro collegate, confluite nell’Sdf (Syrian Democratic Force). L’Eufrate ha iniziato a fare da confine non scritto, ma ben visibile ed evidente. Con russi e statunitensi costantemente a contatto grazie a una linea sempre attiva tra le due parti.
L’episodio di Al Tanf
Le linee di contatto tra Mosca e Washington in Siria non si sono interrotte nemmeno con lo scoppio del conflitto in Ucraina. E pochi giorni fa i telefoni in dotazione alle forze Usa presenti nel Paese arabo hanno ricevuto diverse chiamate da parte dei russi. Gli uomini del Cremlino hanno avvisato che caccia della federazione russa avrebbero bersagliato una zona non lontana dalla base di Al Tanf. Quest’ultima per la verità è a ovest dell’Eufrate e rappresenta una sorta di piccola enclave filo Usa in mezzo a un deserto quasi interamente ripreso da siriani e russi. Ufficialmente qui Washington è rimasta per prevenire il passaggio dal territorio iracheno a quello siriano di militanti Isis. In realtà Al Tanf ha un grande valore strategico: si tratta della località di confine tra Siria e Iraq, occuparla per gli Usa vuol dire impedire un diretto collegamento tra Damasco e Baghdad e quindi ridimensionare il progetto della “mezzaluna sciita” teorizzato da Qassem Soleimani, il generale iraniano ucciso da un raid delle forze di Washington proprio in Iraq il 3 gennaio 2020.
Per Assad la presenza statunitense lì è abusiva e illegale, oltre ovviamente a non essere ben voluta. I russi hanno lasciato fare per evitare di ledere i già precari equilibri nella regione. Ma, per l’appunto, pochi giorni fa hanno fatto sentire l’eco delle bombe sganciate dai propri aerei ai militari americani stanziati ad Al Tanf. Nelle comunicazioni fornite agli Usa, Mosca ha sottolineato che il raid ha avuto come obiettivo quello di colpire cellule dell’Isis presenti nel deserto che pochi giorni prima hanno attaccato una guarnigione dell’esercito siriano. L’episodio però, come sottolineato al Wall Street Journal da funzionari del Pentagono, è stato visto con sospetto dalla stessa Casa Bianca.
Il timore è quello che, da ora in poi, i russi possano avvicinarsi alle basi occupate dagli Usa. Più il raggio di un’incursione di Mosca si avvicina a un avamposto statunitense e più, nonostante gli avvisi preventivi, aumenta il rischio di un incidente. Che, è bene ricordarlo, non costituirebbe un inedito in Siria. Nel settembre 2016 forze di Washington hanno bombardato una base siriana a ovest dell’Eufrate, in una zona di “pertinenza russa” a Deir Ezzor. Il Pentagono in quell’occasione ha parlato di incidente. Nel 2017 e nel 2018 l’allora presidente Donald Trump ha dato il via libera a un bombardamenti di alcuni obiettivi siriani, sempre nell’ovest del Paese. Anche se i russi, come trapelato in seguito, erano stati avvisati. Infine nel settembre 2018, ancora nell’area di Deir Ezzor, ma ad est dell’Eufrate, americani e contractors russi sono entrati in contatto e sarebbero rimasti uccisi almeno 200 miliziani della Wagner. Altri incidenti, ma di altre epoche. Oggi c’è la guerra in Ucraina e i rapporti tra Casa Bianca e Cremlino sono ai minimi storici. Un incidente in Siria in questa fase potrebbe portare a conseguenze di ampia portata.
Di Mauro Indelicato. (Inside Over)