(Roma, 24 maggio 2022). Con l’avvento di Biden e, ancor più, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina il Medio Oriente è entrato in una specie di cono d’ombra.
Sullo sfondo, un duplice processo di disimpegno. Con molti paesi che sono, o almeno si sentono, meno dipendenti dagli Stati Uniti. E, per altro verso, con una netta riduzione dell’impegno degli americani nell’area.
Si è, così. aperta la strada a una serie di processi di riallineamento- nel campo sunnita, tra Turchia e Israele – accompagnati da tentativi di dialogo tra paesi del Golfo e Iran, con annessa tregua nello Yemen. Il tutto coronato da una sorta di ”rinvio a data da destinarsi“ della questione del nucleare iraniano.
Durante tutto l’anno scorso eravamo tutti col fiato sospeso; tra la speranza di un accordo in tempi brevi e il pericolo incombente di una rottura dalle conseguenze imprevedibili. Oggi ci troviamo di fronte al paradosso di un accordo siglato nei minimi dettagli; ma non ancora operante. E questo perché i dirigenti di Teheran hanno posto come condizione per la sua approvazione la rimozione dei Guardiani della Rivoluzione dall’elenco delle organizzazioni terroriste, richiesta rifiutata dagli americani.
Un ostacolo formale; e perciò superabile. Ma a condizione che Washington e Teheran riaprano, magari informalmente, un dialogo tendente a stabilire un “modus vivendi” tra le due parti: da una parte il riconoscimento dello spazio e del ruolo dell’Iran nel contesto mediorientale; dall’altra un freno definitivo all’uso di Hezbollah e di Hamas come possibili strumenti eversivi all’interno dello spazio palestinese e libanese.
Allo stato è possibile che il dialogo riprenda, ma senza venire allo scoperto e quindi senza sbocchi immediati. Manca il senso di urgenza dovuto a una situazione che rischia di sfuggire di mano; mentre sono ben presenti alle due parti le conseguenze politiche di un’apertura che sarebbe violentemente contestata sia dai repubblicani americani che dai conservatori iraniani.
Di qui un’assenza di copertura internazionale che non favorisce certo la soluzione a breve termine di una crisi, quella libanese, che si è fatta, col tempo, sempre più grave.
Il paese dei cedri veniva chiamato, tempo fa, la “Svizzera del Medio Oriente”. Un auspicio o, meglio, un’illusione ottica. Dimenticando il fatto che il binomio neutralità/indipendenza, considerato una risorsa per l’Europa non poteva trovare riconoscimenti e tutele nel Medio Oriente del secondo dopoguerra: caratterizzato, insieme, dalla contestazione sempre più radicale dei valori dell’occidente e dal rifiuto pregiudiziale del pluralismo e del dissenso.
In questo ambiente ostile, il paese dei cedri è diventato, nel corso del tempo, terreno di sperimentazione di tutti i progetti collettivi maturati nel retroterra arabo: dal nasserismo, alla rivoluzione palestinese sino agli interventi ripetuti del “protettore/controllore” siriano. Riuscendo, in ogni circostanza, a recuperare la propria indipendenza,sia pure ad un prezzo assai alto.
Oggi, però, la minaccia non viene più dall’esterno. Ma dalla crisi verticale del compromesso confessionale che ha consentito, nel 1943, la nascita dello stato libanese. E dal conseguente drammatico deterioramento del rapporto tra stato e cittadini; sino a giungere all’incapacità di questo di garantire ai propri cittadini la fruizione dei loro più elementari diritti collettivi. Niente lavoro, niente accesso al credito, niente giustizia, niente verità, l’80% della popolazione con reddito mensile tra i 50 e i 100 dollari; e, come ammortizzatori sociali, l’aiuto reciproco e le grandi reti assistenziali/clientelari, non a caso utilizzate su larghissima scala da Hezbollah.
Al posto dello stato, un sistema di potere inefficiente e corrotto, la cui “esistenza in vita” è garantita da uno “stato nello stato”- quello del Partito di Dio”- secondo un “do ut des” che si potrebbe riassumere in questo modo: “io copro tutti i tuoi traffici e ti difendo contro ogni tipo di attacco; tu riconosci e sostieni il mio ruolo di garante e protettore del Libano contro Israele e l’occidente con tutte le competenze che ne derivano”.
In realtà, fino agli ultimi due decenni del secolo scorso, Hezbollah è stato, per l’infelice paese dei cedri, scudo ma anche calamita per guerre e catastrofi d’ogni generale. Mentre oggi questo ruolo appare del tutto superato, in un contesto in cui il confine tra Libano e Israele e Libano, per una serie di intese locali e internazionale, è diventato assolutamente tranquillo.
In questo quadro, l’opposizione al sistema, che ha al suo epicentro proprio Hezbollah, vero e proprio stato nello stato, soprattutto, ma non solo, con il suo formidabile apparato militare, si è almeno sinora, manifestata in tre modi diversi.
Il primo è stato l’”andatevene tutti a casa” delle grandi manifestazioni popolari che hanno coinvolto gran parte della popolazione, al di là delle appartenenze politico/confessionali. Una contestazione radicale cui il potere ha reagito con un muro di silenzio; e che (anche per il rischio, sempre presente, di sfociare in una nuova guerra civile) è lentamente rientrata. Lasciando dietro di sé un grande senso di frustrazione, sfociato in occasione dell’appuntamento elettorale, in un livello di astensione di poco inferiore al 60%.
Il secondo, presente soprattutto nei ceti medio/alti è stato la ribellione al confessionalismo, percepito come ostacolo principale all’indipendenza della politica e dell’amministrazione. E si è manifestato, in sede elettorale, con la manifestazione di candidature indipendenti coronate, nell’insieme, da un grande successo. Con l’elezione di alcune diecine di candidati. Determinando, di conseguenza, una frammentazione estrema del quadro parlamentare: 128 seggi da assegnare; ma nessun partito oltre i 20.
Il terzo fronte contrapponeva i difensori dell’identità libanese radicati soprattutto nelle comunità cristiane e sunnite (ma anche in quella drusa) a quanti apparivano espressione locale del protettorato iraniano e siriano: assolutamente dominanti nelle due formazioni sciite ma con propaggini di non poco conto in campo cristiano. Ma proprio su questo terreno l’impatto della contestazione è stato oggettivamente più limitato; nel senso che alla frana di consensi nel campo governativo non ha corrisposto che in parte la crescita dell’opposizione “nazionale”.
Sacrosanto, naturalmente, dare battaglia su questo terreno. Ricordare, agli immemori che un paese non può essere né libero né indipendente quando una sua parte è in grado di usare tutti gli strumenti a disposizione, assassini mirati compresi, contro coloro che gli danno fastidio. Ma anche doveroso aggiungere che la battaglia si può vincere solo con la politica. E in tempi certamente non brevi.
In questo quadro, il primo obbiettivo da raggiungere è quello della formazione di un governo “neutrale”, con il compito di introdurre le riforme necessarie per salvare il paese dal fallimento e i suoi abitanti dalla catastrofe.
Un tema all’ordine del giorno da tempo. Ma che non ha mai potuto fruire del concorso politico, economico e finanziario della collettività internazionale e, segnatamente, degli Stati Uniti.
Comprensibile, l’esigenza di evitare grane. Ma, talvolta, risolvere i problemi può essere d’aiuto…
Alberto Benzoni