Kazakistan: se l’Italia teme l’effetto domino

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(Roma, Parigi, 05 gennaio 2022). Un partner commerciale, ma soprattutto un tassello-chiave dell’Asia centrale. I tumulti in Kazakistan preoccupano l’Italia. Il sottosegretario Di Stefano a Formiche.net: “Paese decisivo per la stabilità della regione”. Dalle mire russe all’ombra di Kabul, se Roma e Bruxelles temono l’effetto domino

L’Italia segue con apprensione il caos in Kazakistan. Uno dei Paesi satellite più vicini alla Russia di Vladimir Putin è in pieno tumulto. Da Almaty a Nur Sultan, le principali città kazake sono travolte da proteste di piazza su larga scala. Il casus belli è l’aumento dei prezzi del carburante. Ma la sommossa si è presto trasformata in un guanto di sfida al regime di Nursultan Nazarbayev, ex presidente ancora oggi uomo-ombra del potere kazako.

Un primo conto è già stato presentato: più di 200 arresti, internet censurato, polizia schierata in tenuta antisommossa e un governo-fantoccio costretto alle dimissioni di massa dal presidente Kassym-Jomart Tokayev. Un secondo conto, più salato, può arrivare nei prossimi quindici giorni, quanto durerà lo stato d’emergenza.

L’Europa guarda preoccupata ai sommovimenti del Paese ex-sovietico, il più grande dell’Asia centrale. Non fanno eccezione l’Italia e il governo di Mario Draghi. “Il Kazakistan è un Paese di riferimento per la stabilità dell’Asia centrale, oltre che un importante partner commerciale italiano”, dice a Formiche.net il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, che dalla Farnesina sta seguendo il dossier in contatto con l’ambasciatore italiano a Nur Sultan, Marco Alberti. “Oltre ad essere un importante partner commerciale dell’Italia, il Kazakistan è un asse portante del formato 5+1 (Italia più Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, ndr)”, aggiunge. Dietro la compostezza diplomatica c’è la preoccupazione della Farnesina per la destabilizzazione di un’area su cui l’Italia ultimamente ha scommesso molto, non solo sul piano economico.

Facciamo qualche passo indietro. Sono passati cinque mesi da quando, a metà agosto, i Talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan. All’indomani della caduta di Kabul il governo italiano, regista del G20 speciale di Roma, ha giocato un ruolo di primo piano nella definizione di una strategia europea in Asia centrale, con un particolare focus sui flussi migratori.

La linea di fondo, condivisa dagli Stati membri nel Consiglio giustizia e affari interni del 31 agosto, si può riassumere così: aiutare gli afgani “vicino a casa loro”. E cioè supportare con finanziamenti e logistica i Paesi dell’Asia centrale per creare un “cuscinetto” di sicurezza intorno ai confini afgani e gestire l’esodo di massa dal neo-emirato, insieme alle possibili infiltrazioni terroristiche. Kazakistan, appunto. E poi Kirghizistan, Tagikistan, insieme a Pakistan e Iran. Un terremoto a Nur Sultan – e un eventuale effetto-domino nella regione – rischia di far saltare questo perimetro di sicurezza.

A conferma del fatto che la presenza in Asia Centrale fosse e sia una necessità di carattere tattico non solo per l’Italia, ma anche per l’Unione europea, come scrivevamo su Formiche.net, pochi giorni dopo quella riunione a Bruxelles, il ministero degli Esteri Luigi Di Maio si era recato in visita in Uzbekistan, Tagikistan, Qatar e Pakistan. A dicembre, invece, è stato, assieme a Di Stefano, a Tashkent, in Uzbekistan, per parlare con gli omologhi di Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan e con la rappresentante speciale dell’Unione europea per l’Asia centrale, l’ambasciatrice Terhi Hakala.

Ancora una volta con un convitato di pietra: l’Afghanistan e il rischio di un domino tra i Paesi vicini, già vessati dalla pandemia, oltre che da altri guai interni. In Kazakistan, ad esempio, va crescendo il timore delle autorità per la radicalizzazione dei giovani. Un fenomeno che può essere alimentato dalle condizioni sociali ed economiche delle fasce di popolazione più svantaggiate ma anche da infiltrazioni dalle Repubbliche centrasiatiche confinanti e dallo Xinjiang, regione cinese abitata dagli uiguri, popolazione musulmana e turcofona.

Anche la Russia di Putin, che ha nel “padre della nazione” Nazarbayev uno storico alleato, guarda con attenzione alla situazione nel Paese. Le manifestazioni possono offrire il pretesto per cementare le relazioni con il presidente Tokayev, che ha licenziato il governo e imposto il coprifuoco, replicando quanto già accaduto con Aljaksandr Lukašėnka in Bielorussia. Le ex repubbliche sovietiche centro-asiatiche sono parte della catena del valore russa, ma anche oggetto degli interessamenti della Cina per la Via della Seta, della Turchia, che vuole costruire nell’Asia Centrale un “blocco” strategico unico, e dell’Iran, che nell’area cerca influenza come sfogo per le restrizioni di campo in Medio Oriente.

Di Francesco Bechis e Gabriele Carrer. (Formiche)