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Soleimani: la «confessione» di Israele

(Roma, 23 dicembre 2021). L’uccisione di un nemico non è mai una notizia da dare facilmente. Significa svelare di fronte al mondo quello che viene solo sospettato o detto a mezza bocca. La conferma di una campagna precisa, chirurgica, a volte anche plateale ma senza alcuna vera ammissione di colpa.

Israele, in questo senso, compie da molti anni operazioni di raid e omicidi mirati in cui il suo nome non appare da nessuna parte, ma solo sospettato. È una verità che tutti conoscono eppure che nessuno può dire con certezza, perché sono gli stessi vertici dello Stato ebraico a non dire mai con certezza quando e se colpiscono, nemmeno a fatto avvenuto. Un po’ come avviene da diversi anni in Siria, dove i raid dell’aeronautica israeliana sono ormai regolari eppure le Idf, le Israel defense forces, evitano in ogni caso eccessi di trionfalismo. E lo stesso avviene con i cosiddetti omicidi mirati: quelle operazioni dei servizi di intelligence in cui vengono uccisi gli elementi  più importanti degli apparati nemici e in cui non esistono conferme, se non in inchieste giornalistiche o rivelazioni di gole profonde più o meno volute per inviare un segnale. Basti pensare al caso dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh, uno dei vertici del programma nucleare iraniano. Lo stesso dicasi per Baha Abu al Ata, guida del braccio militare della Jihad islamica, ucciso da un raid israeliano a Gaza mentre era nella propria abitazione. E sono solo alcuni degli ultimi episodi in cui si parla di veri e propri omicidi chirurgici compiuti da forze militari e agenti segreti dello Stato ebraico.

Stupisce, quindi, (anche se ultimamente non troppo, e scopriremo perché) che Israele, tramite le parole dell’ex capo dell’intelligence militare, generale Tamir Hayman, abbia ammesso il coinvolgimento nell’omicidio di Qasem Soleimani. Il generale iraniano, vertice dei Pasdaran iraniani e a capo delle operazioni all’estero dei Guardiani della rivoluzione, venne ucciso nel gennaio del 2020 in un attacco con un drone condotto dagli Stati Uniti all’aeroporto di Baghdad. In una intervista alla rivista Malam pubblicata dall’Israel Intelligence Heritage and Commemoration Center, Hayman ha affermato che l’eliminazione di Soleimani “fu un successo perché ai nostri occhi il nemico principale è l’Iran”. “È raro che un uomo di grado talmente elevato sia al tempo stesso l’organizzatore della forza combattente, uno stratega e anche colui il quale impartisce ordini”, ha spiegato il generale, il quale ha aggiunto che “Soleimani rappresentava un forte potenziale di danno per la stabilità della regione, era la locomotiva del treno dell’espansione iraniana”. Il generale, che ha terminato il suo incarico a ottobre, ha poi confermato che esistono “due omicidi significativi e importanti” avvenuti durante il suo mandato. Uno è appunto quello di Soleimani, l’altro, citato in precedenza, quello di Abu al-Ata.

Per Israele si tratta di un’ammissione che non è solo la confessione di un ex vertice dell’intelligence militare. Da tempo lo Stato ebraico ha scelto una strada diversa anche nel modo di comunicare: per certi versi anche più sfacciata. Da un lato si inviano segnali molto diretti all’avversario regionale, l’Iran, in un momento di tensione per i pochi risultati sul negoziato per il programma nucleare. Dall’altro lato, il messaggio è rivolto a tutti coloro che sono considerati nemici dagli apparati israeliani: non è solo un avvertimento rivolto a Teheran, ma, come dimostrato anche dalla conferma dell’assassinio di uno dei leader della Jihad islamica, anche per tutti coloro che costruiscono una strategia contro Israele. L’omicidio mirato diventa quindi un’arma al pari di un raid: un metodo pubblico, non per questo ritenuto migliore, ma sicuramente accettabile. Ed è un importante punto di svolta anche per i rapporti di vicinato e con vecchi e nuovi alleati: l’intelligence sa come, dove e chi colpire. Anche più degli Stati Uniti.

Di Lorenzo Vita. (Il Giornale/Inside Over)

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