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Salah Abdeslam, il mostro del Bataclan

(Roma, 13 novembre 2021). Un 13 novembre come oggi, ma del 2015, un feroce e altamente preparato commando legato allo Stato Islamico metteva a ferro e fuoco le strade, le piazze e i locali di Parigi, trasformando la capitale parigina in un inferno per un giorno, o meglio per una sera.

La caccia al kāfir dei soldati dell’oramai defunto Abu Bakr al-Baghdadi sarebbe durata quasi quattro ore, dalle ventuno e mezza all’una, terminando in una mattanza con pochi pari nella storia del terrorismo islamista in Europa: 130 morti e 368 feriti. Soltanto i qaedisti di Madrid 2004 mieterono più vittime – 192 morti e 2.057 feriti.

Sette membri del commando morirono quella sera di novembre – portando il bollettino a 137 deceduti –, mentre altri due furono uccisi cinque giorni più tardi, nel corso del celebre raid di Saint-Denis. Soltanto uno sarebbe sopravvissuto ai fatti del 13 novembre, uscendo indenne anche dal successivo pugno di ferro delle forze speciali. Quel superstite, il cui processo sta avendo luogo proprio in questi giorni, risponde al nome di Salah Abdeslam.

La vita prima del terrorismo

Salah Abdeslam nasce in quel di Bruxelles il 15 settembre 1989. Figlio di due francesi di origini marocchine, Abdeslam è cresciuto nel quartiere più difficile della capitale belga, il famigerato Molenbeek-Saint-Jean. Qui, data l’alta concentrazione di persone provenienti dal Maghreb – in particolare dal Marocco –, Abdeslam non avrebbe mai avuto l’opportunità di integrarsi realmente nel resto della società né di entrare in contatto con i belgi.

Nonostante la scarsità di prospettive di sviluppo, tanto umane quanto professionali, Abdeslam avrebbe vissuto all’occidentale almeno fino alla prima parte del 2014, frequentando locali notturni e facendo utilizzo di alcolici e droghe leggere. Al termine di una breve esperienza come meccanico presso le officine della Società di Trasporto Intercomunale di Bruxelles, durata dal 2009 al 2011, il giovane Abdeslam sarebbe entrato rapidamente in un circolo vizioso, autodistruttivo, fatto di droghe, prostitute, furti e rapine.

Il tentativo di rialzarsi, aprendo un bar nel cuore di Molenbeek, si sarebbe rivelato infruttuoso. Aperto nel dicembre 2013, il locale sarebbe stato chiuso poco dopo dalle autorità perché ritenuto un ricettacolo di spacciatori. Tornato nel mondo della microcriminalità, Abdeslam avrebbe trovato la “salvazione” grazie ad una vecchia conoscenza, un amico di infanzia con il quale era cresciuto a Molenbeek e con cui aveva commesso delle rapine negli anni passati: Abdelhamid Abaaoud.

La radicalizzazione

Abaaoud e Abdeslam si sarebbero incontrati ad un certo punto del 2014. Il primo era appena tornato dalla Siria, dove aveva combattuto nelle file dello Stato Islamico. Il secondo stava accumulando denunce per piccoli reati, cercando di combattere la depressione tra locali notturni e coffe shop. Il primo, tanto carismatico quanto fanatico, non avrebbe avuto difficoltà a convincere il secondo, abbattuto e rancoroso e, dunque, psicolabile, ad abbandonare quello stile di vita autodistruttivo, incoraggiandolo a tornare all’Islam.

L’Islam praticato da Abaaoud, ad ogni modo, nulla aveva a che fare con l’Islam vero, originale, di Maometto e dei Puri antenati. Perché tra una preghiera e l’altra, e dopo aver chiuso con ogni vizio – sigarette, alcolici, prostitute e droghe leggere –, Abdeslam, un giorno del 2015, avrebbe visto una nuova persona allo specchio: non uno sbandato senza meta, ma un aspirante terrorista.

A partire dalla metà del 2015, l’anno dell’avvenuta radicalizzazione, Abdeslam avrebbe cominciato a viaggiare in lungo e in largo per l’Europa, Italia inclusa, allo scopo di reperire armi, di procurarsi materiale utile alla preparazione di esplosivi, di fare proseliti e di stabilire alleanze con altre cellule.

I movimenti di Abdeslam non sarebbero passati inosservati agli inquirenti e ai servizi segreti del Vecchio Continente. Soltanto qualche settimana prima degli attacchi, infatti, il nome del giovane sarebbe apparso in un elenco preparato dall’intelligence belga avente come oggetto la conduzione di possibili attentati terroristici. Il contenuto allarmistico di quel documento, come è noto, sarebbe stato ignorato, permettendo ad Abdeslam e soci di muoversi liberamente, limare i dettagli del piano e, infine, portarlo a compimento.

La strage e la fuga

Il commando giunse a Parigi la sera dell’11 novembre, alloggiando in alcune stanze di un aparthotel sito ad Alfortville, nei pressi di Parigi. Abdeslam si era occupato di tutto: della prenotazione delle camere, dell’organizzazione del viaggio, del noleggio delle automobili. Con lui, in quei giorni, si trovava il fratello, Brahim, anch’egli radicalizzato e anch’egli pronto a compiere il volere di al-Baghdadi.

La sera del 13, pochi minuti prima dell’avvio della mattanza, Abdeslam comprò una carta sim. Compose un numero di telefono, avvisando l’interlocutore che tutto era andato come da programma e che a breve avrebbe avuto inizio il massacro. Quel numero, avrebbero poi scoperto gli investigatori, apparteneva ad Abdheila Chouaa, un commilitone che al momento della chiamata si trovava rinchiuso nella prigione belga di Namur. Chiusa la chiamata, avrebbe avuto inizio la strage, alla quale Salah, tuttavia, non avrebbe partecipato. Il fratello Brahim, invece, vi prese parte, e morì la stessa sera, facendosi esplodere all’interno del Comptoir Voltaire.

Raccolto alcune ore dopo da due complici – Hamza Attou e Mohammed Amri –, Salah fu riportato in Belgio in macchina. I tre, paradossalmente, furono fermati ad un posto di blocco nei pressi di Cambrai, a pochi chilometri dal confine, ma gli agenti, al termine degli accertamenti, permisero loro di proseguire.

Rientrato in Belgio, Abdeslam si sarebbe dato alla macchia, cercando di guadagnare tempo adottando un nuovo vestiario, cambiando pettinatura e cambiando continuamente nascondiglio. Le indagini hanno appurato la sua presenza in una pluralità di alloggi localizzati a Schaerbeek, un altro quartiere a composizione islamica di Bruxelles.

Dopo quattro mesi di ricerche incessanti, caratterizzati da raid improvvisi in luoghi di culto e abitazioni e dall’arresto di svariati complici della latitanza, fra il 15 e il 18 marzo 2016 ha finalmente avuto luogo la svolta. Il 15, nel corso di un’operazione alle porte di Bruxelles, viene scoperto un rifugio ancora fresco utilizzato da Abdeslam. Nel blitz, durante il quale gli agenti speravano di scovare il ricercato, verrà ucciso in una sparatoria uno dei tanti membri della cellula del terrore di Bruxelles: Mohamed Belkaid.

Il 18, infine, il fuggitivo più pericoloso d’Europa verrà individuato e tratto in arresto nel suo quartiere natale, Molenbeek, nel quale gli era stato offerto ricetto da una famiglia già indagata nei mesi precedenti. Nel corso dell’incursione, per via di un tentativo di aggressione ai poliziotti, riceverà un proiettile nella gamba.

Il processo

Abdeslam ha fatto parlare di sé sin dal trasferimento in carcere, prima in Belgio e poi in Francia, essendo divenuto l’oggetto di una devozione popolare dentro e fuori le sbarre. Dentro è stato ed è temuto e rispettato dagli altri detenuti, che in Francia lo accolsero tra gli applausi. Fuori, invece, ha stregato numerose donne, che gli scrivono lettere d’amore sin dal 2016.

Abdeslam non ha mai nascosto le proprie responsabilità, sebbene abbia cercato di minimizzarle. Ha ammesso sin dal primo interrogatorio di essersi occupato del noleggio auto, della prenotazione delle camere di albergo e di aver trasportato i tre attentatori suicidi che provarono a farsi esplodere allo Stade de France.

Secondo quanto dichiarato ai giudici, Abdeslam avrebbe dovuto partecipare agli attentati del 13 novembre. Il fratello, invero, gli avrebbe consegnato una cintura esplosiva. L’accusa, ad ogni modo, ha sempre parlato di dichiarazioni concepite allo scopo di ripulire la sua immagine attraverso il trasferimento del peso giudiziario su delle persone impossibilitate a difendersi.

Per quanto riguarda il movente, invece, Abdeslam è stato chiaro, conciso e spietatamente sincero sin dal principio: gli attacchi non sarebbero stati concepiti a causa di presunti sentimenti d’odio serbati nei confronti dei francesi, quanto per aggredire e punire la Francia come Stato, come governo.

Nel 2018 è stato condannato da un tribunale di Bruxelles a vent’anni di carcere per il tentato omicidio di un agente di polizia il giorno della cattura. Per la strage del 13 novembre 2015, invece, il processo si è aperto quest’anno, a inizio settembre.

Di Pietro Emanueli. (Il Giornale/Inside Over)

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