(Roma, 01 novembre 2021). Ieri, Haji Mustafa, procuratore di Kabul, è stato prelevato all’improvviso dai talebani. Lo hanno portato lontano da casa sua e, infine, lo hanno ammazzato. La fotografia che ci inviano i collaboratori afghani mostra un busto coperto da un sacco beige e un volto coperto di sangue. Un occhio, pesto, è chiuso. L’altro ancora aperto. Una mano è appoggiata alla testa. Dopo diverse ore, i talebani lo hanno riportato là dove lo avevano prelevato e hanno abbandonato il cadavere: un monito per coloro che hanno collaborato con gli eserciti della Nato.
“Lo stesso faranno con me”, ci scrive un ex interprete
Il tempo scorre veloce. Ieri La Repubblica riportava la notizia di un corridoio umanitario per 1200 afghani che raggiungeranno il nostro Paese nei prossimi due anni: “Un passo importante che permetterà di portare in salvo afghani che ci hanno aiutato e che per questo sono in pericolo. Molti a fine agosto erano entrati nelle liste dei voli militari italiani in partenza da Kabul, ma l’attacco kamikaze contro l’aeroporto gli aveva impedito di varcare i cancelli; altri avevano già il nulla osta per il ricongiungimento con i familiari nel nostro Paese ma erano rimasti intrappolati dopo la vittoria talebana”.
Un passo importante, certo, ma che non risolve la situazione di quanti – e si tratta di centinaia di persone – sono rimasti in Afghanistan. Questa iniziativa, però, riguarda solamente coloro che in questi mesi sono riusciti a raggiungere Pakistan e Iran. Gli altri, quelli rimasti nella “tomba degli imperi”, rischiano di rimanere ancora una volta indietro. E questa volta per sempre.
La situazione in Afghanistan è sempre peggiore: i talebani hanno concesso un’amnistia per tutti coloro che hanno servito negli esercito Nato, ma il patto non sembra reggere. Il 13 ottobre scorso, per esempio, è stato ucciso un interprete che aveva lavorato con l’esercito olandese. Un’esecuzione brutale, come hanno raccontato i familiari della vittima:
Hanno chiesto di lui e, quando ha confermato la sua identità, hanno improvvisamente iniziato a sparargli contro con un AK-47. Lo abbiamo perso
Un altro interprete, che aveva collaborato con l’esercito australiano, è stato impiccato la settimana seguente, come riporta Abc. Gli interpreti temono di essere scoperti e giustiziati: “Alla fine del mio periodo con l’esercito italiano sono stato ferito da uno Ied. Durante il processo di evacuazione non potevo venire a Kabul perché mio figlio era malato. Ora chiedo rispettosamente di trasferirci in Italia perché siamo in una situazione molto pericolosa”. Un altro interprete scrive: “Ho paura quando cammino per strada. Quando sono a casa temo che arrivino i talebani e mi arrestino. Pochi giorni fa un funzionario del precedente governo è stato portato via dai talebani e non si sa se sia vivo o morto”. La disperazione si fa sempre più forte:
I talebani sono senza scrupoli e non hanno pietà per nessuno
Ad esser rimasto indietro non è solamente chi ha collaborato con il nostro Paese, ma anche un’ottantina di interpreti che hanno lavorato con la Nato, in particolare con l’esercito turco: “Durante l’evacuazione abbiamo espresso le nostre preoccupazioni, ma ci hanno detto che non avevano un piano per aiutarci. Poco prima però ci avevano promesso che non ci avrebbero mai abbandonato”.
È l’incertezza a fiaccare gli afghani. L’annuncio di una nuova evacuazione rappresenta certamente un importante passo per aiutare coloro che hanno aiutato i soldati italiani durante questi venti anni di guerra. Ma lascia ancora senza risposta un quesito fondamentale: come salvare gli interpreti e i collaboratori rimasti in Afghanistan? Nessuno o, quasi, sembra essere in grado di rispondere a questa domanda.
Di Matteo Carnieletto. (Il Giornale-Inside Over)