Perché gli Stati Uniti temono il golpe in Sudan

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(Roma, 25 ottobre 2021). Le notizie che arrivano dal Sudan gettano una nuova ombra sul Paese. Da Khartoum confermano l’arresto del premier, Abdallah Hamdok, e di diversi esponenti civili e ministri, condotti in località segrete. I militari hanno preso le strade della capitale, internet è stato oscurato nella maggior parte del territorio nazionale e i voli sono fermi. La situazione è incandescente e si evolve di ora in ora, ma quello che è certo è che la transizione democratica che doveva avvenire proprio in queste settimane subisce un arresto forse definitivo. Il generale Fattah Al Burhan, a capo della transizione, ha annunciato in un drammatico discorso in televisione di avere ordinato lo scioglimento del governo e del Consiglio sovrano, quello che doveva occuparsi della transizione verso la democrazia. Tutti i leader che fino a questo momento formavano i centri di potere verso la transizione sono stati arrestati.

La questione è arrivata direttamente a Washington, preoccupata, prima di ogni altra potenza, su quanto sta avvenendo a Khartoum. Un dato aiuta a comprendere meglio di ogni altro l’importanza del Sudan, in questo momento, per l’agenda americana: l’inviato di Washington per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, era proprio lì a poche ore dal golpe insieme a un altro emissario, Bryan Shawkan. L’inviato era stato ricevuto dal premier Hamdok – ora preso in custodia dai militari. Lo stesso Feltman, raccontano i media locali e le agenzie di stampa, si era incontrato con il presidente del Consiglio sovrano, Abdel Fattah al Burhan, e col suo vice, aveva visto il leader del Movimento giustizia e uguaglianza, Jibril Ibrahim, e il capo dell’Esercito di liberazione del Sudan. Insomma, incontri che delineavano una rete di contatti e interessi che dimostravano come gli Stati Unti fossero molto interessati a quanto avveniva a Khartoum.

Lo sbarco di Feltman e Shawkan nei giorni del golpe certifica anche il timore di Washington per il crollo imminente di un sistema che adesso rischia di scuotere una regione sempre più instabile. Washington, proprio attraverso le parole dell’inviato per il Corno d’Africa, ha già avvertito i militari che qualsiasi cambio di regime potrebbe provocare lo stop agli aiuti da parte americana. Ma è chiaro che adesso il mosaico rischia di complicarsi.

I rischi per la Casa Bianca

La crisi in Sudan rischia infatti di complicare la strada degli Stati Uniti per la stabilizzazione dell’area e soprattutto per evitare che altre potenze prendano il sopravvento a Khartoum imponendo la loro presenza nella regione. Per la Casa Bianca, il Sudan è una cerniera che serve a frenare possibili infiltrazioni russe in un’Africa sub-sahariana sempre più interessate dalla presenza di Mosca nell’area, dalla Repubblica centrafricana al Mali. L’accordo per una base navale proprio sulle coste del Paese certificavano, ai temi del dittatore deposto, Omar Bashir, l’interesse del Cremlino per l’area. Negoziati che sono proseguiti dopo diverse battute d’arresto, nel corso di questi anni. Ma il Sudan serve anche come fattore stabilizzante per un potenziale conflitto di portata regionale come quello che rischia di scatenarsi per la diga Gerd, l’immensa infrastruttura sul corso del Nilo in territorio etiope e che spaventa i Paesi a valle. Stesso discorso per i conflitti in corso nelle aree che confinano con il Paese già martoriato dalla guerra civile e dalle milizie ribelli. Un golpe e una situazione di caos armato rischiano di interessare il Ciad, il conflitto in Tigrai, in Etiopia, provocando contraccolpi nel punto più estremo della Libia sud-orientale fino alla frontiera dell’Egitto.

Inoltre, qualsiasi forma di destabilizzazione comporta la possibilità per altre potenze interessate all’Africa di invadere spazi in cui gli Stati Uniti cercano di salvaguardare la propria sfera di influenza. Russia e Cina, ma non solo. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti tentano di ampliare la loro rete nella costa occidentale del Mar Rosso dopo aver iniziato a inserirsi non solo in Yemen ma anche nelle coste del Corno d’Africa. Stesso discorso per la Turchia, con Recep Tayyip Erdogan che ha confermato la sua proiezione africana in un tour in diversi Paesi del continente. Un mosaico complesso che per Washington che, preoccupata anche dall’avanzata di Pechino nel continente, rischia di subire un colpo definitivo da un possibile regime change in Sudan senza collegamento con gli interessi degli Stati Uniti. Da Bruxelles, intanto,  arrivano segnali di sgomento. Ma anche in questo caso la partita appare senza un vero ruolo dell’Unione europea.

Di Lorenzo Vita. (Il Giornale/Inside Over)