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Ecco i «punti caldi» della terra: qui si rischia una guerra mondiale

(Roma, 10 agosto 2021). Taiwan “sta diventando il punto caldo più pericoloso al mondo per una possibile guerra che coinvolga Stati Uniti, Cina e probabilmente altre grandi potenze”, avvertono Robert D. Blackwill, collega senior del Council on Foreign Relations (Cfr) , e Philip Zelikow, professore di storia dell’Università della Virginia White Burkett Miller.

Il Cfr, fondato nel 1921, è un prestigioso think tank statunitense indipendente che si occupa di politica estera che ha tra i suoi contributori politici, avvocati, ex direttori della Cia, professori universitari e altri esperti.

Secondo i due autori del documento, la questione taiwanese è quella che potrebbe in assoluto causare un conflitto aperto che degenererebbe in una guerra globale. Sostengono infatti che gli Usa dovrebbero cambiare e chiarire la propria strategia per prevenire una possibile guerra per “l’isola ribelle”.

“L’obiettivo strategico degli Stati Uniti riguardo a Taiwan dovrebbe essere quello di preservare la sua autonomia politica ed economica, il suo dinamismo come società libera e la sua funzione di deterrenza come alleata degli Stati Uniti, senza innescare un attacco cinese” si legge nel rapporto, con la precisazione che “non pensiamo che sia politicamente o militarmente realistico pensare che gli Stati Uniti possano sconfiggere militarmente un attacco cinese all’isola. Né è realistico presumere che, dopo uno scontro così frustrante, gli Stati Uniti si impegnino in una sorta di guerra su vasta scala contro la Cina con blocchi navali o attacchi contro obiettivi sulla terraferma cinese”.

Blackwill e Zelikow aggiungono anche una considerazione politica. Infatti sostengono che “se i piani militari degli Stati Uniti postulano scenari così irrealistici saranno probabilmente respinti dal presidente e dal Congresso”. Ma, osservano, “la conseguente paralisi degli Stati Uniti non sarebbe il risultato della debolezza o della timidezza presidenziali. Potrebbe sorgere perché il Paese più potente del mondo non ha opzioni credibili per affrontare la crisi militare più pericolosa che si profila davanti a sé”. Proponendo “un obiettivo strategico realistico per la questione dell’isola e le relative linee politiche per sostenere l’equilibrio che ha mantenuto la pace negli ultimi cinquant’anni”, gli autori esortano l’amministrazione del presidente Joe Biden ad affermare che non sta cercando di cambiare lo status di Taiwan, a lavorare con i suoi alleati, in particolare col Giappone, per preparare nuovi piani che potrebbero sfidare le mosse militari cinesi contro Taiwan e aiutarla a difendersi, ma scaricando la responsabilità di un’eventuale guerra sulla Cina; soprattutto pianificare ampiamente, in anticipo, gli sconvolgimenti e le conseguenze che potrebbero scaturire da una guerra più ampia, ma senza presumere che un tale conflitto potrebbe o dovrebbe estendersi ai territori metropolitani cinesi, giapponesi o statunitensi.

I due ricercatori, concludendo, affermano che “le orrende conseguenze globali di una guerra tra Stati Uniti e Cina, molto probabilmente per Taiwan, dovrebbero preoccupare la squadra di Biden, a cominciare dal presidente”.

Taiwan, però, non rappresenta l’unico punto di tensione che potrebbe degenerare in un conflitto aperto. Poco più a sud, e sempre con gli stessi attori protagonisti, anche il Mar Cinese Meridionale potrebbe essere la causa di uno scontro armato. La Cina, infatti, rivendica la sovranità su quelle acque con la finalità ultima di nazionalizzarle, quindi arrogandosi il diritto di determinarne l’accesso e pertanto limitando – de facto – la libertà di navigazione. Anche aerea. Pechino accarezza anche l’idea di stabilire una Adiz (Air Defense Identification Zone) nei cieli sopra quel mare. La lenta ma costante militarizzazione degli arcipelaghi presenti nel Mar Cinese Meridionale, e la sempre maggiore presenza aeronavale statunitense e alleata, è un fattore di rischio non indifferente: c’è la possibilità, se pur non così alta, che un incidente casuale (come un breve scambio di colpi), possa innescare un’escalation senza controllo e quindi un conflitto regionale che coinvolgerebbe, inevitabilmente, anche i partner e gli alleati di Washington.

Lo stesso Giappone ha in essere un’altra questione inerente alla sovranità con la Cina, riguardante le isole Senkaku: rivendicate da entrambi i Paesi, è possibile che, stante le sempre maggiori azioni aggressive della marina cinese in quelle acque, si possa assistere un domani alla medesima dinamica che per l’alleanza che stringe Tokyo con Washington comporterebbe un intervento diretto statunitense.

Spostandoci più a occidente, un altro teatro “ad altro rischio” è quello del Golfo Persico/Penisola Arabica. Qui entra in gioco un altro attore, l’Iran, che sta abilmente innestandosi nei conflitti locali (Yemen, Siria) per estendere la sua influenza e contrastare il blocco Stati Uniti-Israele-Arabia Saudita.

Il cambio al vertice di Teheran, però, nonostante veda l’affermarsi di quella che è stata unanimemente definita “linea dura”, paradossalmente potrebbe calmierare l’assertività dei Pasdaran ora che nel Paese c’è sostanzialmente unità tra la guida politica e quella religiosa. Non è comunque da escludere a priori che Washington non effettui qualche tipo di operazione di basso profilo per ridimensionare l’attività di guerra asimmetrica iraniana, che, proprio recentemente, ha visto nuovi attacchi al traffico navale nella regione. Del resto, nonostante il risultato delle elezioni israeliane, a Tel Aviv si teme una nuova “era Obama” per quanto riguarda gli accordi sul nucleare ora che la Casa Bianca ha abbandonato l’idea di inserire tra i negoziati l’arsenale missilistico iraniano, fattore che è stato proprio tra i motivi del raffreddamento del rapporto israelo-statunitense ai tempi della firma del Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action).

Difficilmente però, un eventuale attacco statunitense (o in cooperazione con Israele e altri alleati), potrebbe innescare un conflitto aperto: è un’opzione che nessuno dei due contendenti desidera, per ovvie motivazioni diverse. Un precedente di questo equilibrio c’è già stato: in occasione del raid che ha eliminato il leader delle Irgc Qasem Soleimani, Teheran ha risposto con un attacco missilistico che è stato ampiamente reso prevedibile e molto limitato. Oltretutto in quella occasione, nonostante il bersaglio principale fosse la base statunitense in Iraq di Ayn al-Asad (insieme a Erbil), Washington non ha optato per l’opzione più dura, ovvero un bombardamento delle basi missilistiche iraniane.

Per dovere di analisi di scenario dobbiamo necessariamente parlare di due altri teatri: la Corea del Nord e l’Europa Orientale. Sebbene in entrambi i casi ci siano tensioni internazionali che si protraggono da lungo tempo, l’eventualità che queste degenerino in un conflitto aperto sono molto remote, se pur non da escludere totalmente.

Per quanto riguarda le penisola coreana, la situazione si è sostanzialmente cristallizzata dagli accordi – fallimentari – di Hanoi: Pyongyang non intende rinunciare al suo arsenale atomico senza che da parte statunitense non ci sia una dimostrazione di “buona volontà” riguardante sia l’embargo (che sta letteralmente strangolando l’economia locale), sia l’assicurazione che non verrà mai tentato un cambio di regime. La diplomazia di Washington, per il momento, sembra non aver ancora preso in causa la questione, ma ci sono comunque dei progressi che riguardano i rapporti diretti tra Nord e Sud: Kim Jong-un ha auspicato la riapertura della “linea diretta” di comunicazione tra i due Paesi. Sebbene vi sia una certa stabilità della crisi, non è possibile escludere che ci sia un suo nuovo acuirsi qualora il Nord dovesse riprendere i suoi test di missili balistici a medio/lungo raggio o quelli atomici, ed eventuali azioni di sabotaggio da parte delle Sof nordcoreane o scaramucce di frontiera innescherebbero la reazione del Sud, degli Stati Uniti ed alleati (Giappone in primis).

Il teatro europeo riguarda il confronto con la Russia, che è temuta – per via di quanto avvenuto in Ucraina nel 2014 – dagli Stati più orientali appartenenti alla Nato, Polonia e Paesi Baltici in primis.

Qui gli Stati Uniti stanno cercando, come da strategia consolidata negli ultimi tre lustri, la “stabilità della tensione”, ovvero il confronto aperto con Mosca per costringerla entro i suoi confini pur continuando a cercare la collaborazione su temi in cui ci potrebbe essere convergenza (vedere il dossier nucleare). Insieme al Mar Nero – e proprio alla questione ucraina inerente al Donbass – quel settore di fronte orientale (proprio perché esiste un confine diretto) potrebbe rappresentare la miccia di uno scontro diretto tra le forze della Nato e quelle russe, tuttavia questa possibilità è davvero molto remota.

Afferente alla stessa dinamica, ma pur con altri risvolti e altre dinamiche, è la situazione in Libia, dove gli Stati Uniti, sostanzialmente, hanno affidato alla Turchia il compito di tamponare la penetrazione russa. Schierati con le milizie facenti capo a Khalifa Haftar ci sono un certo numero di contractor del Cremlino – con mezzi militari – che combattono le forze di Tripoli, sostenute apertamente da Ankara e, molto più limitatamente, anche dall’Italia (con compiti di addestramento e formazione degli organismi di sicurezza statale). Anche qui, ma più per il fatto che l’impegno russo non è ufficiale, è altamente improbabile che si giunga a un casus belli, tuttavia non è impossibile. Chi scrive ritiene, per la stessa motivazione riguardante la dottrina di “stabilità della tensione”, che il fronte siriano sia più instabile riguardo alla possibilità di un conflitto con l’Iran, piuttosto che con la Russia, quindi tendenzialmente da escludere.

Paolo Mauri. (Inside Over)

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