Chi sarà la nuova vittima della trappola afgana ?

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(Roma, 13 luglio 2021). La tratta ferroviaria più pericolosa del mondo ha mietuto un’altra vittima: l’Alleanza Atlantica, ovvero l’Occidente. L’assassinio è avvenuto nei pressi di una fermata maledetta, Kabul, che nei secoli ha stupito le armate di Alessandro il Grande, Omar ibn al-Khattab, Gengis Khan e Tamerlano e ha spezzato i sogni di egemonia regionale della Corona britannica, degli zar russi, della dinastia Qing e dei sovietici.

Lo scettico e razionale Occidente nulla ha potuto contro la forza travolgente di quella maledizione primordiale e sempiterna che ha trasformato l’Afghanistan, la terra delle montagne che dormono, nella Tomba degli Imperi. Dopo vent’anni di operazioni militari, che solo agli Stati Uniti sono costate la bruttezza di 2,6 trilioni di dollari – cioè più della ricostruzione dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra – e oltre 6mila vite tra i militari – 2.442 regolari e circa 3.800 privati –, l’amministrazione Biden ha optato per l’unica scelta possibile: avallare la tumulazione della salma dell’Occidente, che a partire da quest’anno avrà un sepolcro nel Cimitero degli Imperi.

Una scelta rischiosa, sofferta e non esente da dure critiche, quella della presidenza Biden, ma che è figlia legittima di un tempo preciso: il tempo della terza guerra mondiale a pezzi, altresì nota al volgo come nuova guerra fredda. Un tempo, questo, che richiede decisioni coraggiose, machiavelli ingegnosi e rischi calcolati, ovvero ritirate strategiche, intese cordiali, paci fredde e alleanze tattiche. Un tempo, questo, che esige riorientamenti bruschi della bussola verso nuove direzioni, nonostante la contrarietà della maggioranza che conta e l’apparentemente sfavorevole rapporto rischi-benefici. Un tempo, questo, che vedrà vivi, morti, spettri e zombi combattersi tra le tombe del cimitero Afghanistan.

Ritirarsi sì, rassegnarsi no

La ritirata dall’Afghanistan rappresenta una sconfitta tremenda e totale in termini di immagine per l’Occidente delle guerre umanitarie – questo è innegabile –, ma non è né illogica né miope. Al contrario, eventi, fatti e sviluppi della storia recente suggeriscono che mai momento fu più propizio per ritirarsi da Kabul:

  • La Cina verrà coartata ad investire una mole considerevole di risorse umane, economiche e cognitive nel monitoraggio a distanza ravvicinata di questa fermata maledetta. E, mentre la dirigenza cinese cercherà di domare gli indomabili studiosi del Corano nel nome della realizzazione della Nuova Via della Seta e della stabilità nell’instabile Xinjiang, la Casa Bianca profitterà del disimpegno per impegnarsi nei teatri che contano, in primis l’Indo-Pacifico.
  • La Russia, già distratta a ponente dalle manovre dell’Alleanza Atlantica nello spazio postcomunista, verrà obbligata a ripiegare verso meridione dall’imperativo di proteggere quella debole cinta muraria che sono gli –stan. Perché si scrive Talebani a Kabul, ma si legge anarchia nel turco-vicinato postsovietico sotto forma di profughi, crisi transfrontaliere, terrorismo e processi di radicalizzazione religiosa.
  • La Turchia, che ha accettato ad occhi chiusi l’onere-onore di diventare la faccendiera degli Stati Uniti in Afghanistan, se dovesse rispettare fedelmente il copione scritto per lei dall’amministrazione Biden, si ritroverebbe a recitare nel ruolo di alfiere dell’anti-multipolarismo impegnato nel doppio contenimento di Russia e Cina. Una missione ardua, che Recep Tayyip Erdogan svolgerebbe con l’affiancamento di Qatar, Fratellanza Musulmana e associati, ma che potrebbe aumentare in maniera esponenziale i costi (già elevati) della sovraestensione imperiale della Turchia, rendendola, de facto, economicida.

Quella degli Stati Uniti, in estrema sintesi, è una ritirata senza rassegnazione: è la ritirata dell’ottimismo. L’ottimismo di chi ha perduto una battaglia, ma è fermamente convinto che quei nemici letali e indocili che sono i Talebani – e i risorgenti jihadisti centroasiatici – non scenderanno a patti né con l’asse Mosca-Pechino né con Ankara, spezzando i sogni multipolari del primo ed appesantendo le spese di bilancio della seconda.

Incognite e scenari

La speranza-aspettativa della presidenza Biden è che gli studiosi del Corano e la risorgente internazionale jihadista buchino la coronaria del cuore della Terra (Heartland), determinando la morte per emorragia delle agende di Russia e Cina per l’Eurasia e ridimensionando significativamente le aspirazioni e le dimensioni dell’inaffidabile Turchia – amica di tutti e utile per molteplici scopi, ma, alla fine della giornata, alleata unicamente con se stessa e pericolosamente alla ricerca di autonomia strategica, indi costituente una minaccia in divenire agli interessi americani in Eurasia.

Spiegato altrimenti, ovverosia attraverso esempi, nel prossimo futuro si potrebbe assistere a tentativi di sabotaggio del dialogo tra Cremlino e Talebani, ad azioni ostili contro obiettivi cinesi e ad un crescendo di pressioni antieconomiche per Ankara. La strategia potrebbe funzionare, ma presenta una serie di incognite non di poco conto e, non meno importante, è stata formulata a partire da un assioma elevato al rango di dogma: il potere della ricorrenza storica. Ad uno sguardo più attento, invero, emergono uno ad uno i limiti della ritirata dell’ottimismo:

  • Gli strateghi della Casa Bianca confidano nella bellicosità dei Talebani, nonché nella loro animosità nei confronti del Cremlino, sottovalutando considerevolmente il fattore stanchezza. Russia e Cina, supportate da Pakistan, Iran e dagli –stan, potrebbero dare vita ad un formato di vigilanza concertata (funzionale ad un abbattimento degli oneri di gestione a mezzo della ripartizione delle spese) e lavorare al raggiungimento di un modus convivendi profittevole per tutti, in primo luogo per i Talebani, che si presume abbiano voglia di pacificare e ricostruire la nazione.
  • Gli strateghi della Casa Bianca confidano nelle potenzialità destabilizzative di un’internazionale jihadista crescentemente baricentrata tra Asia centrale e Asia meridionale, nonché nelle non-troppo-remote probabilità di alleanze estemporanee tra Al Qaeda, Stato Islamico e frange dei Talebani. Uno spettro che graverebbe sul ritorno alla normalità, sulla stabilità dell’intero perimetro postsovietico e sulla costruzione della Nuova via della seta, ma che comporterebbe anche dei notevoli pro per Mosca e Pechino, dato che antiterrorismo e sicurezza diverrebbero degli strumenti di cooperazione avanzata con cui persuadere gli –stan spaventati dallo scenario afghanizzazione a benedire basi militari, accordi di collaborazione esclusiva e mercenari.
  • Gli strateghi della Casa Bianca confidano nella (presunta) volontà di Erdogan di fungere da paladino degli interessi occidentali in Asia centrale, ma trascurano il peso della lobby eurasiatista ad Ankara – rilevante e in aumento –, sopravvalutano l’ascendente esercitato su Islamabad – che è e resta un protettorato cinese – e sovrastimano l’importanza del fattore identitario – Talebani e turchi predicano due forme diverse di sunnismo e l’elevata eterogeneità etnica della nazione costituisce un ostacolo alla propagazione del panturchismo.
  • Gli strateghi della Casa Bianca confidano nell’influenza dell’India su alcuni settori dell’Afghanistan in chiave anticinese, ma ne supervalutano il potenziale: il Pakistan, non l’India, è il custode dei Talebani.

Cosa c’è in gioco ?

L’amministrazione Biden ha avuto una visione: l’assassinio del multipolarismo sull’Afghan Express. Perché sangue chiama sangue e l’omicidio dell’Occidente non può restare impunito. La vera domanda, a questo punto, è la seguente: “il rischio si rivelerà calcolato o semplicemente azzardato?”.

Saranno i posteri e la storia a dare ragione (o torto) alla presidenza Biden, che sulla maledizione del Cimitero degli imperi ha scelto di scommettere per prendere quattro piccioni con una fava: Russia, Cina, Turchia e Iran. Ai contemporanei, invece, il fardello della comprensione degli eventi: l’anatema pashtun come capitolo-chiave della competizione tra grandi potenze, la ritirata euroamericana da Kabul come trappola concepita nel contesto del bellum perpetuum delle talassocrazie contro l’ascesa di un ordine tellurocratico con base in Eurasia e la destabilizzazione delle terre del Rimland come impedimento alla messa in sicurezza dell’Heartland.

Oltre alla battaglia degli Stati Uniti per il prolungamento del momento unipolare, però, v’è (molto) di più: il contenimento preventivo di quello che è ritenuto un rivale in divenire, ovvero la Turchia. Turchia che è, sì, un ariete multivettoriale dal valore inestimabile – perché la geografia l’ha benedetta, mettendola nella posizione unica di poter angariare la poststorica Unione Europea ogniqualvolta la Germania alza la testa, di poter intralciare l’espansionismo russo tra Balcani, Caucaso e Asia centrale e di potersi proiettare fino alla sinosfera –, ma che va anelando crescentemente alla piena emancipazione geopolitica dall’Occidente, va diventando crescentemente illiberale e va costruendo un impero informale ritenuto eccessivamente solido e vasto.

È nel contesto dell’altra guerra fredda, quella fra Washington e Ankara, che si inquadrano il tranello afghano di Biden – utile a fermare la convergenza con l’asse Mosca-Pechino e ad aumentare le probabilità di un’implosione data dall’insostenibile sovraestensione imperiale –, l’armamento di Atene, la nascita del Turkish Democracy Project ed altri eventi meno recenti, risalenti all’era Trump, come l’entrata israeliana nei Balcani e gli accordi di Abramo.

In Afghanistan, in definitiva, si giocheranno tre partite simultaneamente: gli Stati Uniti si batteranno per il perdurare del traballante momento unipolare, l’asse sino-russo combatterà per evitare che gli venga intitolata una tomba nel Cimitero degli Imperi, mentre la Turchia dovrà scegliere da che parte stare. Ognuno di loro, nel muoversi tra le montagne impervie del Paropamiso, dovrà tenere bene a mente il monito immortale dell’eroe-guerrigliero Ahmad Shah Massoud, il terrore degli specnaz:

Un monito da non schernire, quello di Massoud, considerando che il fato ha voluto che l’Afghanistan fosse, sin dall’alba dell’Uomo, una cosa sola: il Cimitero degli Imperi.

Emanuel Pietrobon. (Inside Over)