Ricostruire il Libano. La road map di USA e Francia con sponda Vaticano

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(Roma, 03 luglio 2021). “Il ceto politico risponderà alle richieste di responsabilità e riforme solo se verrà colpito nei suoi asset”, diceva un ex premier. Parole che suonano attuali dopo le recenti preghiere del pontefice e le ultime mosse di Parigi e Washington

Francia e Stati Uniti dicono che stanno tentando di affrontare il gorgo in cui è sprofondato il Libano, un Paese affamato, in ginocchio, ma senza un governo addirittura da un anno. Ma hanno la volontà e la forza per farlo davvero ?

Il collasso del Libano è imminente, affermano autorevoli think tank statunitensi. Ma il gorgo libanese è fatto di debolezze interne e interferenze esterne. Entrambe sono state al centro del discorso pronunciato da papa Francesco al termine della giornata di preghiera per il Paese dei cedri. Le debolezze interne: “Chi detiene il potere si ponga finalmente e decisamente al vero servizio della pace e non dei propri interessi. Basta ai tornaconti di pochi sulla pelle di molti!”. Le famiglie e i singoli che guidano il Libano odierno sono ancora in gran parte gli stessi della lontana guerra civile per via di una sorta di esproprio della politica da parte dei clan. Il sistema confessionale, che il lungo protettorato siriano non ha mai consentito che si rinnovasse e desse vita anche forze politico-culturali come pure sarebbe stato consentito dalle riforme varate con gli accordi di pace di Taiff, ha creato una sorta di tappo clanico transconfessionale. Basti considerare che è stata una scelta unitaria quella che ha portato il Paese a rinunciare nel 2006 al prestito senza interessi per ricostruire la propria centrale elettrica distrutta dalla guerra di quell’anno, preferendo l’acquisto di energia elettrica da grandi navi a un costo esorbitante che oggi costituisce il 40% del debito internazionale.

Poi ci sono le interferenze. Ha detto Francesco: “Basta usare il Libano e il Medio Oriente per interessi e profitti estranei! Occorre dare ai libanesi la possibilità di essere protagonisti di un futuro migliore, nella loro terra e senza indebite interferenze”. Anche qui le interferenze sono diverse e contrapposte, ma certamente dagli anni Ottanta la più rilevante e costosa è quella iraniana, che ha investito miliardi nella costruzione del braccio armato di Hezbollah, che ha espropriato il Libano del diritto più importante, quella di una propria politica nazionale di difesa. Il Libano è il solo Paese a non poter decidere se e quando dichiarare guerra. Questa decisione infatti non è nelle mani del Libano, come dimostra quanto accaduto nel 2006 e con diverse rivolte popolari arabe dal 2011: Siria, Iraq, Yemen. Il coinvolgimento diretto di Hezbollah, libanese, in questi conflitti, soprattutto quello siriano, e anche nell’assassinio dell’ex premier libanese Rafik Hariri ne è la lampante dimostrazione.

Ora ci si rende conto che con una valuta crollata in 20 mesi da un cambio di 1.500 lire libanesi per un dollaro a un cambio di 18.000 lire libanesi per un dollaro il Libano non è più un porto sicuro per chi cercasse riparo culturale ed economico dalle persecuzioni e dalla miseria vicine, ma un volano di disperazione e traffici illegali, come dimostrano i continui sequestri di enormi partite della nuova droga, il captagon, scoperti da chi ancora commercia con Beirut. Il nuovo tentativo di coinvolgere politici di primo piano, che si è tentato di scongiurare da mesi con azioni di ostruzione del lavoro della magistratura, nell’inchiesta sull’esplosione del porto di Beirut conferma che soggetti politici interni potrebbero essere arrivati ad essere complici di quella tragedia che ha annichilito l’ultimo scalo del Levante. La richiesta di ascoltare anche i capi delle più importanti strutture di intelligence nazionali sembra proprio confermare che quanto accadde a Beirut più che all’estero va indagato in patria. Ma evidentemente non si vuole.

La via d’uscita dal baratro, con una popolazione ridotta alla fame e quasi due milioni di profughi stranieri presenti nel Paese, è molto complessa. Come ha detto un ex ministro libanese “il ceto politico risponderà alle richieste di responsabilità e riforme solo se verrà colpito nei suoi asset”, cioè nei beni personali o familiari di cui dispone. È anche per questo che la Francia, dal legame antico e diretto con Beirut, sta avviando sanzioni contro quei politici che non aiutano il riordino e la riforma strutturale del Paese. Anche l’azione americana, tesa a colpire politici invischiati con il terrorismo miliziano, mirerebbe allo stesso obiettivo.

Da dopo il metropolicidio di Beirut, probabilmente un tentativo di assassinio dello spirito cosmopolita della città, il Libano non riesce a darsi un governo, con responsabilità che ricadono anche sulla leadership cristiana, a partire dal presidente della Repubblica, l’ex generale Michel Aoun. Vecchio protagonista della guerra civile, ha bloccato intese possibili per la costituzione del nuovo governo atteso da un anno, sempre per chiedere un suo potere d’interdizione, di blocco governativo. La salvezza del Libano, senza corrente e senza benzina, non potrà venire solo dall’esterno. Ma le pressioni e l’aiuto internazionale non potranno salvare il Libano senza riforme politiche profonde capaci di restituire ai cittadini i veri diritti di cittadinanza.

E il nodo Hezbollah è parte delicatissima di questo problema. La sua natura armata si accavalla con la rappresentanza oggettiva di ampia parte della comunità sciita, in tempi lontani discriminata e quindi comprensibilmente revanscista. Il desiderio di riscatto sociale è legittimo, la milizianizzazione della comunità è il problema. Come soggetto miliziano Hezbollah ha peso anche in Siria, in Iraq, in Yemen, e questo determina una sua agenda non nazionale ma regionale.

Così la questione si complica ulteriormente: le grandi diplomazie devono aiutare il Libano, per la sua importanza strategica, ma il Libano è un corpo pervaso dall’esercito parallelo di Hezbollah, l’unica milizia nazionale in armi, molto più forte dell’esercito nazionale. Ma Hezbollah è anche un partito che controlla il Parlamento in virtù della sua forza e dell’accordo con il presidente Aoun, del quale ha voluto l’elezione. Ciò nonostante il Libano ha creduto ancora in se stesso, nonostante l’assassinio del premier che aveva ricostruito la sua capitale e ha saputo riportare il prodotto interno lordo a 55 miliardi: dopo l’esplosione del porto di Beirut, che per il druso Walid Jumblatt è stata causata dal nascondimento intenzionale di un enorme quantitativo di nitrato d’ammonio destinato a Bashar Al Assad, si è crollati a 33 miliardi e per l’anno corrente la Banca mondiale si aspetta un’ulteriore contrazione, stimata intorno al 10%.

La questione libanese si può risolvere creando le condizioni perché questo torni un Paese sovrano, quindi con un ceto politico e non clanico ma anche con il diritto di avere una propria politica nazionale di difesa, quello che oggi non ha. Senza enumerarne tutti gli interventi militari all’estero, basta ricordare l’assedio – posto da Hezbollah – al palazzo del presidente del Consiglio quando era premier Fouad Siniora, dopo l’assassinio di Hariri. Quell’assedio è durato mesi, ha determinato il fallimento di gran parte degli esercizi del centro cittadino: correva l’anno 2008. Da allora trovare il bandolo della matassa è sempre più difficile: assolvere la politica libanese è impossibile, ma anche le responsabilità della comunità internazionale sono evidenti. Beirut è la trincea di un conflitto che va molto al di là dei confini libanesi. E ancora una volta il Libano sembra destinato a pagare un conto che non è solo suo.

Riccardo Cristiano. (Formiche)