Che cosa si studiava davvero nel laboratorio di Wuhan

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(Roma, 02 giugno 2021). Giochi pericolosi, relazioni intrecciate tra laboratori, informazioni riservate passate da una parte all’altra dell’oceano. E ancora: ipotesi, teorie – tra cui, certo, le immancabili teorie del complotto – indiscrezioni, prove più o meno schiaccianti e convinzioni ideologiche. Basta mescolare tutti questi ingredienti per ottenere il contenuto principale del dibattito internazionale sulle origini del Sars-CoV-2. Sappiamo poco, pochissimo, del virus che da oltre un anno è emerso da chissà dove e chissà in quale modo. È chiaro che la comunità scientifica, prima o poi, dovrà ricostruire l’intera vicenda del Covid. Ci vorranno mesi, anni, forse decenni. Ma, proprio come accaduto con le precedenti epidemie – pensiamo alla Sars e alla Spagnola – uno strato di verità potrebbe emergere.

È tuttavia altrettanto evidente che, in assenza di indizi concreti, appare complicato costruire un solido ragionamento a prova di propagande incrociate e bufale da social network. Al momento, l’unico modo per effettuare considerazioni sensate è lavorare con il (poco) materiale a disposizione. La teoria della fuoriuscita del virus dal laboratorio di Wuhan sia tornata in auge ? Benissimo. Anziché confermarla o confutarla, poiché le prove latitano, vale la pena indagare sul Wuhan Institute of Virology (WIV). Che cos’è ? Dove si trova ? Che cosa succedeva al suo interno? Quali studi venivano realizzati ?

La nascita del laboratorio di Wuhan

Partiamo dalle basi. Il WIV è un istituto di ricerca sulla virologia gestito dall’Accademia cinese delle scienze. Si trova a Wuhan, nella provincia dello Hubei, e nel 2015 ha aperto il primo laboratorio BSL-4 della Cina, ovvero di livello di biosicurezza 4, il più alto in assoluto. La struttura ha legami con altri laboratori esteri, tra cui il Galveston National Laboratory negli Stati Uniti, il Centre International de Recherche en Infectiologie in Francia e il National Microbiology Laboratory in Canada. Sappiamo inoltre che il laboratorio BSL-4, lo stesso laboratorio finito nell’occhio del ciclone, è nato grazie a una fondamentale partnership franco-cinese. Era il 2003 quando il mondo intero scampo al pericolo di una pandemia globale di Sars.

All’epoca, l’antenato del Sars-CoV-2 riuscì a fare danni limitati, ma fu proprio in quel periodo che le autorità cinesi decisero di migliorare la capacità nazionale di contrasto alle epidemie. Nel 2004, Hu Jintao e Jacques Chirac, all’epoca rispettivamente presidente cinese e francese, si accordarono per sconfiggere insieme le prossime malattie emergenti. Frutto dell’intesa, la decisione di costruire un laboratorio per studiare i virus altamente patogeni. Quella struttura sorse a Wuhan, grazie a finanziamenti cinesi ma anche (e soprattutto) al supporto di tecnologia ed esperti francesi. A quanto risulta, Parigi avrebbe dovuto partecipare alle attività e al controllo del laboratorio. Eppure, da quando il centro entrò in funzione nel 2018 – in concomitanza con la prima visita di stato in Cina di Emmanuel Macron – i francesi furono estromessi dal progetto. In altre parole, i cinesi iniziarono a lavorare sui virus in totale autonomia. E maneggiando tecnologie altamente sensibili.

I rischi della ricerca gain-of-function

Date le “origini” occidentali del WIV, e le sue connessioni accademiche con altre strutture internazionali, è altamente plausibile supporre che all’interno del laboratorio cinese venissero realizzati studi simili a quelli effettuati nel resto del mondo. Vale la pena citare Shi Zhengli, la nota virologa cinese – nota anche con il soprannome di Bat Woman – a capo del Center for Emerging Infectious Diseases. Sulla base di alcuni suoi lavori scientifici, è possibile credere (non vi è certezza) che miss Shi sia riuscita a convertire con successo un coronavirus simile alla Sars, il virus SHCO14-CoV, dai pipistrelli ad altri animali. Chissà, poi, che questo virus – magari a causa di standard di sicurezza non propriamente eccelsi – non sia riuscito accidentalmente a contagiare anche alcuni addetti della struttura, come ipotizzato da un report Usa pubblicato dal Wall Street Journal.

In ogni caso, studi del genere sono chiamati gain-of-function, alla lettera ricerca guadagno di funzione. Stiamo parlando di una ricerca pericolosissima, che, tra l’altro, costrinse gli Stati Uniti, tra il 2014 e il 2017, a sospendere studi e attività a causa di problemi e incidenti di laboratorio. Ma che cosa sono, in pratica, gli studi gain-of-function? Nella speranza di sviluppare adeguate contromosse per frenare l’ipotetica evoluzione di virus temibili, come ad esempio la Mers e la Sars, gli esperti rendono tali patogeni più forti e più trasmissibili mediante attività di laboratorio. Detto altrimenti, l’idea consiste nel produrre virus “pompati” artificialmente più di quanto non siano in natura per studiare il meccanismo attraverso il quale si trasformano e interagiscono con l’ospite, sia esso animale o umano. Nel caso in cui tutto dovesse svolgersi senza intoppi, gli esperti potrebbero essere in grado di creare farmaci ad hoc per sconfiggere questi virus per sempre. Ma i rischi non mancano. Già, perché se durante un esperimento il virus rafforzato dovesse diffondersi tra i ricercatori o tra gli animali coinvolti nelle attività, allora potrebbe accade il pandemonio.

Federico Giuliani. (Inside Over)