(Roma, 25 maggio 2021). Arafat e Netanyahu. Il primo in caduta libera dal 2000 in poi; caduta accentuata sotto i suoi successori, sino a raggiungere il fondo all’indomani dei cosiddetti accordi di Abramo. Il secondo, salito ai suoi massimi livelli nella stessa circostanza. Con un Israele, mai cosi forte e sicuro all’interno del mondo che lo circonda. C’è però anche un altro protagonista che, contrariamente ad ogni aspettativa, è uscito dal recinto in cui era stato relegato per intraprendere percorsi nuovi ed autonomi.
Parlo del popolo palestinese. Ma penso anche ad altri popoli del Medio Oriente, a partire da quello libanese, vittime delle incurie criminali dei loro governi e del disinteresse della collettività internazionale.
Ed è pensando a loro, come agli amici di MenaNews e ai compagni dell’Avanti !, che mi sento di affermare che il processo di liberazione pacifica, oggi bruscamente interrotto, riprenderà dopo la tragedia e su basi più ampie e sicure.
Vediamo ora come e perché.
Lo stato ebraico, alla vigilia di quest’ultima crisi, e certamente per merito di “re Bibi”, aveva raggiunto uno “status”mai così favorevole e sicuro. Con molti significativi amici in più in tutto il mondo arabo; e con grandi possibili ricadute in tutti i campi, incluso quello della frequentazione reciproca.
In quanto ai nemici, tutti in condizione di non nuocere. Hamas e Hezbollah in virtù di consolidati patti di non aggressione. L’Iran perché impegnato in un dialogo a tutto campo con gli Stati Uniti, possibilmente vantaggioso per entrambi. I palestinesi per l’impotenza dell’Anp; ma anche perché il luogo deputato del loro impegno politico, lo stato d’Israele, li collocava esplicitamente su di fronte diverso, se non separato, rispetto ai loro confratelli di Ramallah o di Gaza.
A questo punto, Netanyahu avrebbe dovuto dichiararsi soddisfatto. E ritirarsi con in testa, la corona di re d’Israele.
Ritirarsi, però, era impossibile. Perché significava il via libera ai processi pendenti a suo carico. E perché, caduto lo scudo Trump, Washington stava tornando non ai tempi di Obama ma a quelli di Bush padre; a partire da una nota recentissima del Dipartimento di Stato che potrebbe essere stata scritta da Kissinger o Baker “non daremo più assegni in bianco ai nostri partner in Medio Oriente per coprire politiche contrarie agli interessi americani“. I paesi del Golfo, così come i loro avversari iraniani, hanno subito capito l’antifona e si sono adeguati. Netanyahu ha fatto il contrario. Illudendosi di poterlo fare impunemente.
Ed è questo punto che -nel periodo a cavallo dell’appuntamento elettorale- le strategie del Nostro sono entrate in collisione con quelle funzionali agli interessi di Israele e del suo popolo.
Il premier in carica, doveva assolutamente reagire alla formazione di un governo, quello di Lapid che, per la prima volta dai tempi di Rabin, si sarebbe retto sull’astensione di un partito arabo; e che, per la prima volta nella storia di Israele, metteva insieme forze che andavano dalla destra nazionalista ai socialisti di sinistra, uniti dall’avversione nei confronti di Netanyahu e dei religiosi ultraortodossi.
E lo ha fatto riaccendendo, nell’unico luogo adatto allo scopo, lo scontro tra ebrei e arabi.
Per raccontarne, più brevemente possibile, le vicende possiamo rifarci all’inchiesta svolta da un testimone al di sopra di ogni sospetto: il N.Y.Times.
Il dramma cresce lentamente nell’arco di poco meno di un mese. Nessuna esplosione incontrollabile di violenza. Nessun morto. Nulla che non potesse essere controllato o evitato. A partire dalle scorrerie delle frange più estreme degli ultras di destra nella zona dove dovevano avvenire gli sfratti Per finire con le tre, dico tre, incursioni all’interno di al Aqsa. La prima per tagliare i fili del microfono durante la preghiera del mattino così da evitare rumori fastidiosi durante le cerimonie commemorative della nascita dello stato d’Israele. Le altre due (la seconda assai più violenta della prima, con spari e lanci di granate) per reprimere manifestazioni di protesta. In mezzo alle due, un avvertimento formale di Hamas: “cessate le provocazioni o saremo costretti ad intervenire”. Come non detto; ma due notti dopo sarebbe iniziato il lancio di razzi seguito, subito dopo, dalla terza guerra di Gaza.
Uno scenario destinato a ripetersi davanti ad un occidente assente e magari complice ? L’ennesima vittoria del re ? La definitiva consacrazione di Israele come stato incapace di diventare normale o perché permeato di razzismo o, al contrario, perché costantemente minacciato di distruzione ?
Queste cose lasciamole dire alle opposte tifoserie. Patetica sino al disfattismo quella palestinese; assai più pericolosa quella israeliana.
In realtà i fatti cui abbiamo assistito e le immagini che abbiamo visto ci raccontano una storia del tutto diversa.
Cominciamo dalle guerre: dal perché iniziano alla intensità con cui vengono svolte sino al bilancio complessivo dei pro e dei contro dell’operazione.
Qui, il paragone tra l’intervento tra l’intervento del 2014 e quello di oggi è, dal punto di vista israeliano, rivelatore. Nel 2014 i bombardamenti durarono 11 settimane. Oggi, appena una settimana, in virtù di un altolà americano molto simile ad un ultimatum. Nel 2014, le autorità israeliane dichiararono di aver raggiunto i loro obbiettivi, leggi la completa distruzione dei tunnel e dell’apparato missilistico di Hamas,in grado di colpire Israele; mentre Hamas aveva sparato oltre 4 mila razzi di portata limitata. Oggi scopriamo che questo apparato si è ricostruito; e che Hamas ha sparato in una settimana e con una maggiore gittata, lo stesso numero di razzi. Mentre Netanyahu che, agli inizi dell’operazione non poneva limiti ai suoi obbiettivi, oggi porta a testimonianza del suo successo i tunnel distrutti e i 200 terroristi uccisi, includendo nel computo donne e bambini.
Nel 2014 Israele potè agire grazie alla completa passività della Comunità internazionale e, in particolare dell’America di Obama. Mentre, oggi, non solo l’Amministrazione ritorna in forze sino ad assumere un impegno primario nella ricostruzione di Gaza ma tutti i giornali di lingua inglese e non solo, raccolgono testimonianze e mostrano, nelle loro prime pagine, i volti e il dolore dei sopravvissuti. Fino a sbugiardare i comunicati ufficiali che giustificano la distruzione dell’edificio delle Tv con la presenza di uffici Hamas, senza essere in grado di esibire le prove richieste.
Chiudiamo il nostro viaggio, là dove era cominciato. In un Israele dove Netanyahu è in rotta con i suoi sostenitori perché li ha delusi e contestato dalla pubblica opinione per i suoi fallimenti. Mentre riparte l’ipotesi di un nuovo governo, senza Netanyahu e senza estremisti religiosi che sembrava sepolta. Mentre polizia e Ong arabo-israeliane stanno operando per impedire che il razzismo organizzato metta in pericolo la convivenza tra i due popoli.
Una porta si sta aprendo. Sta a noi tutti operare per spalancarla. Un Capo sta facendo le valigie. Sta a noi tutti operare perché non ritorni né in Israele né nei territori occupati.
(Alberto Benzoni)