(Roma, 18 maggio 2021). Prima di trasformarsi nel mito più tossico dei nostri tempi, l’incontro di Monaco fu una vergogna ma anche un evento esemplare.
Una vergogna, perché francesi e inglesi andarono all’incontro non per negoziare con Hitler e il suo complice Mussolini. Ma per accettare tutte le richieste del Fuhrer pur di evitare una guerra; con il risultato di entrarci un anno dopo e in condizioni infinitamente peggiori.
Un evento esemplare, perché Hitler capì o meglio intuì da subito la totale disponibilità di Chamberlain e di Daladier; dolorosamente consapevole nel francese ma addirittura entusiastica nel premier inglese che considerava la Cecoslovacchia “un paese lontano di cui non sappiamo quasi nulla” e pensava che il Fuhrer fosse un normale nazionalista tedesco, giustamente intento a cancellare le ingiustizie subite a Versailles.
L’anno dopo però, a non capire chi avevano di fronte, furono i nazifascisti. Da una parte Churchill, che riteneva inevitabile l’allargamento del conflitto, e con esso la possibilità di utilizzare in pieno le risorse, di gran lunga superiori, e in ogni campo, degli alleati; dall’altra i nazisti, usciti da Monaco con la convinzione di avere di fronte dei paesi vili e smidollati, incapaci di combattere e di morire. Una contrapposizione che giunse a livelli tragicomici con Mussolini buonanima che contrapponeva i suoi “otto milioni di baionette” alla “perfida Albione” che, a furia di mangiare (“popolo dei cinque pasti”), si sarebbe completamente rammollita.
Allo stesso modo, nei primi anni del dopoguerra, la superiorità del principio di realtà (“conoscere l’avversario e capire le sue intenzioni”) su quello della rappresentazione ideologica, gettò le basi di un processo che, poco più di quarant’anni dopo, avrebbe portato alla vittoria totale del campo occidentale e alla dissoluzione di quello socialista.
Da una parte abbiamo Stalin che, schiavo della sua paranoia e della sua visione del mondo, non vede nessuna possibilità di convivenza pacifica tra oriente e occidente, sino ad auto convincersi del fatto che gli Stati Uniti stessero per scatenare la terza guerra mondiale; ma che nel contempo è abbastanza cauteloso di suo così da non contemplare in alcuna circostanza una guerra di aggressione in Europa. Dall’altra Truman, che, messo a conoscenza delle intenzioni sovietiche dal suo ambasciatore a Mosca, Kennan, adotta in pieno la strategia del containment, convinto che, alla fine, il sistema sovietico non avrebbe retto alla prova.
Poi vene la distensione. E, con essa, come aveva previsto Pietro Nenni, il disgelo nei rapporti interni e internazionali, culminato con la conferenza di Helsinki del 1975. I cui accordi -intangibilità delle frontiere, sviluppo dei rapporti reciproci, tutela e promozione dei diritti umani- avrebbe dato luogo ad un processo che avrebbe portato, contro ogni aspettativa, alla dissoluzione pacifica del sistema comunista.
Un momento, è bene ricordarlo, in cui ricompare tra i nostalgici della guerra fredda il fantasma di Monaco: ossia l’idea che gli accordi avrebbero aperto la strada alla “finlandizzazione” dell’Europa, libera internamente ma condizionata dall’orso russo nei suoi rapporti internazionali. Con l’aggiunta, sempre fabbricata “in vitro” in qualche laboratorio segreto, che la Russia ( diversamente dall’Argentina di Videla e il Cile di Pinochet, classificati come “autoritari”) , fosse “totalitaria” e quindi, incapace di qualsiasi cambiamento.
In realtà le cose andarono in modo totalmente opposto. E per merito di persone e di gruppi segnati dalla speranza nel futuro e dalla buona volontà nel presente. Brandt e i socialdemocratici tedeschi, Palme, Craxi, Walesa, carta ’77, Sacharov, quelli del samizdat, i senza potere; ma anche Gorbaciov ei suoi emuli nei vari paesi del’Est.
Come è noto, però la storia è scritta dai vincitori e, soprattutto, dai loro cantori. Al punto che, oggi, il messaggio di Helsinki è stato gettato nel cestino e i suoi grandi “diffusori” dimenticati se non demonizzati. Se li ricordiamo qui, attenzione, non è solo per un dovere morale ma per la assoluta attualità del loro messaggio. Che è poi sempre quello indicato nella famosa favola di La Fontaine ”se vuoi togliere a un viandante il suo mantello usa i calore del sole e non la forza del vento“.
Sole o vento; apertura o chiusura; uso della persuasione o ricorso alla forza. Queste sono, in sintesi. Le due opzioni che Biden ha di fronte a sé. E in un contesto, in cui, ancora una volta si misurano tra realtà e rappresentazione, capacità di capire chi hai di fronte e sua demonizzazione.
A sentire le parole dei di politici e degli opinionisti europei, saremmo alla vigilia di una nuova guerra fredda con la possibilità di arrivare anche a quella calda. Sulle ragioni di questo atteggiamento è meglio stendere un velo pietoso. Basterà dire che i fatti, da qualunque prospettiva li si consideri, spingono verso un futuro di segno totalmente diverso.
Proprio nei giorni in cui Biden dava del killer a Putin (senza peraltro che quest’ultimo facesse una piega) il portavoce del Dipartimento di Stato dichiarava che non l’ipotesi di nuovi interventi militari e, me che meno, dell’apertura di una nuova guerra fredda non rientravano in alcun modo nei disegni della nuova Amministrazione.
Un contrasto insanabile tra colombe e falchi ? Nient’affatto. Piuttosto un uso attento delle parole per assicurarsi lo spazio di manovra necessario per realizzare i fatti. In un contesto in cui la russofobia è fortemente presente nell’elettorato di riferimento di Biden come in una opposizione repubblicana ormai totalmente dissennata e nei paesi confinanti con la Russia. “Statene certi (e quindi tranquilli N.d.A); non vi abbandonerò” Messaggio ricevuto; anche da Mosca. Anche perché i due contendenti sono in grado di capire immediatamente chi hanno di fronte e quali sono i suoi intendimenti ( vedi caso Navalny…).
Si dirà che il mito di Monaco è sopravvissuto fino a tempi recentissimi. Fino a definire, in ordine cronologico, Milosevic, Saddam Hussein, i talebani, Gheddafi e gli ayatollah come novelli Hitler, insieme potenti, malvagi e totalmente irrazionali. Ma è anche vero che le risposte a questo fantasma minaccioso, si sono concluse, tutte, nel più totale fallimento; con la conseguente risoluzione di non ricorrervi più.
Svanito il mito. Rimane allora la realtà. La realtà di un mondo che dopo la crisi economica e la pandemia, si troverà di fronte a problemi immensi che potranno essere affrontati solo in un contesto di solidarietà e cooperazione reciproca del tutto incompatibile in un contesto di amico/nemico.
E, ancora, la realtà di una sfida mondiale tra modelli diversi in cui l’occidente, a differenza dal 1947, non ha affatto la vittoria assicurata. E che potrà vincere soltanto sul terreno della democrazia. E cioè cominciando a fare ordine in casa propria.
Alberto Benzoni.